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Gramsci o Laclau? I dilemmi di Podemos

Fra qualche giorno all’arena coperta di Vistalegre (Madrid), Podemos celebrerà la sua seconda assemblea generale, un evento che potrebbe segnare una svolta importante nella vita di questa formazione politica che rappresenta a tutt’oggi l’unica sinistra del Vecchio Continente in grado di competere alla pari con l’establishment neoliberale. Nel mio ultimo libro (“La variante populista”, DeriveApprodi) ho indicato in Podemos il più importante esempio europeo (accostandolo alle rivoluzioni bolivariane in America Latina e al movimento nato attorno alla candidatura di Sanders negli Stati Uniti) del tentativo di cavalcare a sinistra l’onda populista che in tutto il mondo si sta sollevando come reazione alle devastazioni sociali, civili ed economiche provocate da decenni di regime neoliberista. Prima di analizzare le opzioni strategiche che si confronteranno a Vistalegre – proverò a farlo mettendo a confronto i documenti programmatici presentati, rispettivamente, dal segretario generale Paolo Iglesias e dal suo competitore Inigo Errejón – è utile premettere alcune sintetiche considerazioni sul mutamento di scenario mondiale in corso (segnato, fra gli altri eventi, dalla Brexit, dall’elezione di Trump e dalla sconfitta di Renzi nel referendum dello scorso dicembre) e sulle sfide che esso impone a tutti i movimenti antiliberisti del mondo.

Il presupposto da cui intendo partire è che stiamo vivendo la fase inziale di un rapido e caotico processo di de-globalizzazione. Non ho qui lo spazio di argomentare adeguatamente tale tesi per cui mi limito a enunciarla in modo apodittico rinviando all’articolo del vicepresidente boliviano Linera, che ho già avuto modo di commentare su queste pagine e su altri organi di stampa: http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/01/26/carlo-formenti-la-globalizzazione-e-morta/. In quel pezzo Linera scriveva, fra le altre cose, che Trump “non è il boia dell’ideologia trionfalista della libera impresa, bensì il medico legale al quale tocca ufficializzare una morte clandestina”. Clandestina, aggiungo io, per l’ottusa ostinazione con cui le sinistre si ostinano a non prenderne atto. E aggiungeva che l’era in cui stiamo entrando è ricca di incertezze, e proprio per questo potenzialmente fertile, se sapremo navigare nel caos generato dalla morte delle narrazioni passate.

 

Sulla stessa lunghezza d’onda vale la pena di segnalare un lungo, notevole articolo firmato Piotr e apparso sul sito megachip http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=127247&typeb=0 che sostiene, fra le altre cose: 1) che Trump non rappresenta solo un elettorato fatto di perdenti della globalizzazione (disoccupati, lavoratori bianchi poveri, ecc.) ma anche un composito mosaico di frammenti delle élite dominanti spaventati dall’inerzia di una politica neocons trasversale (Hillary Clinton su tutti) disposta a rischiare una guerra mondiale, pur di difendere l’egemonia americana fondata sul binomio finanziarizzazione/globalizzazione; 2) che questa base incoerente e composita lo costringerà a condurre una politica altrettanto incoerente e contraddittoria (per esempio facendo marcia indietro sulla globalizzazione senza smettere di difendere gli interessi della finanza globale); 3) che per opporsi al suo pseudo new deal autoritario le lobby liberal-imperiali lotteranno (è cronaca di questi giorni) con il coltello fra i denti, mobilitando un’ideologia identitaria “arroccata dietro il dogma e l’inquisizione della correttezza politica, cioè una forma ideologica elitaria che preferisce tutto ciò che è minoranza, perché le minoranze non pongono sfide esiziali mentre se sfruttate bene possono minare quelle poste dalla maggioranza. Minoranze che quindi devono essere tenute sotto tutela da lobby che si erigono a loro rappresentanti. Lobby di minoranza incorporate in un establishment dedito a politiche elitarie”; 4) che una sinistra che voglia lottare sia contro il globalismo alla Clinton che contro il trumpismo dovrà sarfare, con spirito pragmatico ma senza rinunciare i principi, l’onda populista. Il che ci riporta ai dilemmi di Podemos.

Iniziamo col dire che Podemos è oggi oggetto di una violenta aggressione da parte di tutti i media spagnoli, simile a quelle che in tutti gli altri paesi occidentali vengono condotte contro la minaccia “populista”. Le virgolette s’impongono perché il termine viene usato in modo totalmente indifferenziato: populisti sono Evo Morales e Marine Le Pen, Rafael Correa e Grillo, Trump e Podemos. Un appiattimento che non è frutto di incapacità di analisi politica; al contrario: riflette la secca polarizzazione formulata qualche settimana fa dal direttore del Wall Street Journal, il quale ha dichiarato che, d’ora in avanti, lo scontro non sarà fra destra e sinistra ma fra globalisti e antiglobalisti. Altrettanto univoca la ricetta per fronteggiarli: costruire grandi coalizioni fra liberali e socialdemocratici per sbarrare loro il passo (coalizioni cui tendono ad accodarsi in posizione subordinata quei partiti di sinistra “radicale” che si lasciano convincere dalle élite liberali della necessità di far fronte contro il pericolo “fascista”). In Spagna, come spiega un articolo del deputato di Podemos Manolo Monereo https://www.cuartopoder.es/cartaalamauta/2017/01/24/todo-vale-contra-unidos-podemos/587 , questa campagna si è fatta isterica da quando Podemos ha scelto di stringere un’alleanza elettorale con Izquierda Unida piuttosto che con il PSOE. Perciò, visto che la prima opzione è stata sostenuta da Pablo Iglesias e la seconda da Inigo Errejón, e visto che le due tesi si confronteranno nuovamente nell’assemblea di Vistalegre, i media stanno entrando a gamba tesa nel dibattito precongressuale nella speranza di riuscire a spaccare il partito o, in via subordinata, a rafforzare al suo interno la corrente che fa capo a Errejón. Ma veniamo ai documenti.

 

Il documento di Iglesias https://pabloiglesias.org/2017/01/13/plan-2020-ganar-al-pp-gobernar-espana/ muove da considerazioni analoghe a quelle esposte poco sopra in merito alla fase storica mondiale: la globalizzazione sta entrando in crisi a mano a mano che sorgono nuove resistenze e avversari politici: non solo i movimenti sociali, ma anche quei governi guidati da forze politiche sovraniste/progressiste che, soprattutto in America Latina, tentano di restituire un ruolo strategico allo stato in materia di politica economica e perseguono programmi di riforme radicali, mentre è in corso un riequilibrio dei rapporti di forza geopolitici dovuto all’emergenza di superpotenze vecchie e nuove, come la Russia e la Cina. La crisi europea è parte integrante di tale contesto: gli effetti devastanti del progetto ordoliberista (elevamento del trattato di Maastricht a rango costituzionale sotto egemonia tedesca, perdita della sovranità monetaria e conseguente esautoramento dei governi nazionali privati di potere decisionale su temi strategici; attacco a salari e stato sociale; tagli generalizzati alla spesa pubblica; sistema dei media “blindato” a sostegno del pensiero unico liberista ecc.) generano una resistenza crescente dei popoli europei. In Spagna il consenso, a lungo fondato su settori sociali che aspiravano a venire integrati nella classe media e alternativamente gestito da democristiani e socialisti, si è dissolto dopo l’esplosione della crisi globale e a fronte della “cura” che la Ue ha imposto alla Spagna e che ha prodotto deindustrializzazione e disoccupazione. Così sono nati movimenti di massa che rivendicavano democrazia e sovranità popolari, provocando una vera e propria crisi di regime. In questa situazione i media mainstream si sono fatti garanti della continuità delle scelte politiche liberal liberiste, favorendo la nascita di una grande coalizione liberal socialdemocratica sul modello tedesco.

Il documento passa poi a ricostruire la breve storia di Podemos: nato nel 2013/14 su iniziativa di un gruppo di militanti di varia provenienza (movimenti studenteschi, sinistra anticapitalista, ex comunisti, movimenti di base, ecc.) ispirati dall’esempio del “giro all’izquierda” che ha visto molti Paesi latinoamericani costruire esperimenti populisti di sinistra, il partito ha lanciato un programma politico che chiedeva l’avvio di un processo costituente fondato su riforme radicali: riconquista della sovranità popolare con la possibilità di realizzare una politica economica ridistributiva e di recuperare i diritti sociali; riforma in senso proporzionale del sistema elettorale, riforma della giustizia per accrescerne l’autonomia dal sistema politico; lotta contro il TTIP, lotta per la parità di genere e per il riconoscimento del carattere plurinazionale dello stato spagnolo, ecc. Programma che ha riscosso largo consenso nei settori popolari e nelle classi medie impoverite, consentendo di ottenere importanti successi elettorali.

Dopodiché Iglesias richiama (e rivendica) la svolta che ha visto il partito scegliere l’alleanza elettorale con la sinistra radicale di Izquierda Unida e la contrapposizione frontale al blocco di potere liberal -socialdemocratico. Ricorda che tale svolta è maturata dopo un serrato dibattito interno, in cui la base ha respinto l’opzione (difesa da Errejón) di un accordo con il PSOE, scegliendo invece la strada di un’alternativa radicale al sistema di potere. Questa linea, che Iglesias si appresta a difendere nella prossima assemblea generale, si fonda sull’ipotesi che la crisi politica ed economica non stia avviandosi alla normalizzazione ma sia al contrario destinata ad acuirsi ulteriormente. Il compito di Podemos, quindi, non è quello di proporre un piano alternativo di governo, bensì quello di costruire un nuovo progetto di paese, tenendo saldamente insieme un blocco sociale formato da settori popolari e classi medie.

 

Per attuare questo progetto occorre una riforma dell’organizzazione del partito che, nella convulsa fase di crescita, si era concentrato sulla costruzione di una macchina elettorale favorendo la concentrazione del potere decisionale nelle mani del vertice. Ora si tratta di superare questo assetto verticistico sia rafforzando le strutture di base che affondano le radici nei territori, sia promuovendo e accompagnando la nascita di vere e proprie istituzioni di democrazia popolare, una rete di contropoteri che faccia sì che le vittorie siano percepite come vittorie di un blocco sociale più che come vittorie di Podemos. Infine, se si vuole costruire un modello alternativo di Paese, il programma di questo partito di tipo nuovo – che deve rappresentare un progetto condiviso da identità politiche, sociali e territoriali diverse – deve compiere un salto di qualità che il documento identifica con obiettivi ambiziosi: istituire un controllo democratico  (attraverso regolazione pubblica e/o nazionalizzazioni) sui settori produttivi strategici e in particolare sui settori finanziario, dell’energia, delle comunicazioni; reindustrializzare il Paese contro la sua riduzione a Paese prevalentemente turistico imposta dalla Ue; impegnarsi a realizzare la sovranità alimentare; offrire sostegno alla piccola e media impresa, al cooperativismo e all’economia sociale.

 

Il documento di Errejón http://www.rtve.es/contenidos/documentos/borrador-documento-politico-Errejon.pdf  dedica meno spazio all’analisi della fase storica, in quanto si concentra soprattutto sui rapporti di forza fra i partiti, sulle alleanze e sulle prospettive elettorali, dando relativamente poco peso ai fattori socioeconomici. In particolare, vengono affrontati i seguenti temi: 1) analisi degli errori di Podemos che, secondo Errejón, ne avrebbero frenato l’ascesa elettorale; 2) concentrazione sulla necessità di trasformare Podemos in forza di governo; 3) rilancio, a tale scopo, dell’ipotesi di alleanza con il PSOE (e critica dell’alleanza con IU) ; 4) necessità di riformare il partito, ridimensionando il potere del vertice e “femminilizzandolo”; 5) spostamento dall’obiettivo di costruire di un blocco sociale a quello di “costruire un popolo” (vedi, in proposito, il libro-dialogo fra Inigo Errejón e Chantal Mouffe, “Construir pueblo”), da cui consegue la riformulazione del conflitto sociale quasi esclusivamente nei termini della opposizione alto/basso, popolo/élite; 6) forte attenzione per le aspettative di sicurezza e ordine delle classi medie. Ma vediamone più in dettaglio lo sviluppo.

Per Errejón, Podemos incarna un ciclo di mobilitazione che ha dicotomizzato la società spagnola fra la “gente comune” e una casta privilegiata (si tratta della formulazione “classica” del fenomeno populista secondo le teorie di Ernesto Laclau). Perciò la sua vocazione è quella di costruire una forza politica di tipo nuovo (al di là dei dogmi della sinistra tradizionale) che persegua un cambio di potere in favore delle maggioranze sociali (cambio di potere, non rottura sistemica!).

Per superare l’attuale struttura verticistica (obiettivo sul quale concorda anche Iglesias, come si è visto) Errejón propone una ricetta fondata sui principi “classici” della democrazia parlamentare borghese e dei suoi partiti: divisione dei poteri, distribuzione delle cariche in base a un criterio di “proporzionalità” fra le correnti interne (la cui esistenza viene data per scontata in quanto garanzia di democraticità). Infine “femminilizzazione” del partito in ossequio a quello che in Italia definiremmo il principio delle quote rosa (punto su cui tornerò più avanti perché mi sembra rilevante ai fini delle differenze di prospettiva politica fra i due approcci).

Sul tema delle alleanze Errejón è fortemente critico nei confronti dell’accordo elettorale con IU (al quale imputa la mancata crescita nell’ultima tornata elettorale), mentre rilancia l’ipotesi dell’alleanza con il PSOE, in barba alla tragica crisi di questo partito e al fatto che la base aveva bocciato (vedi documento Iglesias) tale idea. Da un lato, sostiene che se si fosse impostato il rapporto con il PSOE in modo “laico” (implicita allusione all’ostilità ideologica della base di sinistra nei confronti dei socialisti) si sarebbero ottenuti risultati più produttivi di quelli realizzati con la linea di contrapposizione frontale che si è imboccata. A parte il fatto che questa tesi dà per scontata la possibilità di costringere il PSOE ad aderire a un’alleanza di centrosinistra, è evidente che il risultato cui qui si allude consiste nella possibilità che Podemos riesca finalmente a convertirsi in forza di governo. Ma a quale prezzo politico? Il documento, non a caso, sorvola sulle politiche condotte dal PSOE negli anni precedenti, vale a dire sulla sua piena conversione al credo neoliberale. Forse per non ammettere che un accordo con il PSOE implicherebbe, molto più probabilmente, un spostamento verso il centro di Podemos piuttosto che uno spostamento a sinistra dei socialisti.

Del resto Errejón ribadisce la propria convinzione che, alla forza delle élite, non si può contrapporre la sinistra ma “la maggioranza eterogenea di chi sta in basso”. Su quale sia la natura della maggioranza eterogenea che ha in testa Errejón, ci offre un indizio il suo ripetuto riferimento alla necessità di venire incontro alle esigenze di certezza, ordine e sicurezza della gente: il “popolo” in questione è fatto soprattutto da quelle classi medie che sperano di poter recuperare le posizioni di privilegio perse a causa della crisi, un popolo che non va spaventato contraendo imprudenti alleanze con le classi subalterne. In sintesi, potremmo dire che siamo di fronte a un progetto neo socialdemocratico, in ragione del quale Podemos si troverebbe impegnato a integrare, assorbire e rivitalizzare un partito socialista delegittimato per avere consegnato il Paese al saccheggio del capitale finanziario globale.

 

Come si vede l’alternativa prospettata dai due documenti è radicale: da un lato abbiamo l’idea che la crisi è destinata ad aggravarsi e non richiede un semplice cambio di politica economica bensì un vero e proprio cambio di civiltà, dall’altro l’idea che esiste una possibilità di “normalizzazione” della crisi attraverso un cambio di governo e l’adozione di misure capaci di mitigare l’asprezza della civiltà liberista; da un lato abbiamo la concezione di un processo costituente gestito da nuove istituzioni di contropotere popolare e da un partito capace di guidare un blocco sociale fatto di classi subordinate e classi medie impoverite, dall’altro lato la convinzione che basti rivitalizzare le istituzioni della democrazia rappresentativa e rifondare la socialdemocrazia per restituire potere decisionale al popolo. Potremmo anche dire che si confrontano due concezioni diverse del concetto di egemonia: la prima ispirata all’idea di blocco sociale di Gramsci, la seconda all’idea di popolo di Laclau – due concezioni che rinviano a due modelli diversi di “socialismo del XXI secolo” (non va mai dimenticato che tanto Iglesias quanto Errejón devono la propria formazione politica all’esperienza latinoamericana): da un lato il modello della rivoluzione boliviana di Morales e Linera, dall’altro il modello della Revolucion Ciudadana di Rafael Correa (quello, per intenderci, che piace a Grillo: se vincesse Errejón, Podemos somiglierebbe all’M5S assai più di quanto gli somigli adesso). Infine è significativa la differenza di atteggiamento dei due documenti sul tema della parità di genere: entrambi attribuiscono un’importanza fondamentale all’obiettivo, ma nel documento di Errejón esso è al centro di riferimenti ripetuti quasi ossessivamente, nei quali si evoca a più riprese il concetto di ”femminilizzazione” (del partito, delle istituzioni, del programma, ecc.). Il dubbio è che tanta insistenza sia spiegabile, più che come omaggio all’ideologia femminista, come convergenza con la campagna globale che il fronte liberal sta conducendo contro la minaccia populista, campagna in cui l’ideologia politically correct, i diritti civili e individuali e l’esaltazione di tutte le differenze – vedi sopra – vengono mobilitati per impedire che la lotta per i diritti sociali torni a occupare il centro della scena. Per concludere: è auspicabile che l’eterogeneità dei due blocchi sociali e delle due culture politiche che oggi convivono in Podemos non provochi una rottura che sarebbe disastrosa per il movimento antiliberista spagnolo ma, almeno dal punto di vista di chi scrive, è non meno auspicabile che l’unità venga mantenuta sotto l’egemonia della linea di Iglesias, alla quale credo si possa rimproverare quasi solo l’evidente incoerenza sul problema dell’Europa: l’esperienza greca ha dimostrato che l’obiettivo di riconquistare la sovranità popolare in materia di democrazia, welfare e politica economica non è compatibile con la permanenza nella Ue – incompatibilità della quale, finora, nemmeno Iglesias ha avuto il coraggio di prendere atto.

 

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