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Se il popolo “vota male”, è meglio che non voti più?

Il voto per la Brexit ha sorpreso tutti. Anche e soprattutto a “sinistra”, comprendendo in questa esausta categoria tanto gli ultrariformisti approdati felicemente al sottogoverno quanto la sinistra radicale (o ex) e addirittura l’”antagonismo”.

In qualsiasi schieramento, dal liberale al democratico, dal destrorso al “radicalissimo”, appunto, sono emerse con nettezza posizioni pro e contro – addirittura – il suffragio universale. Tutti hanno dovuto prendere atto, nell’analisi del voto, che a favore del remain si sono pronunciate le aree più benestanti, le fasce d’età più giovani (ammesso che sia possibile o attendibile un’estrapolazione per generazione, visto il sistema elettorale per collegio, che consente appunto solo di appurare come abbia votato un determinato territorio), quelli a più alta scolarizzazione (l’impressione è che si sia ricorso a qualche sondaggio post-voto, piuttosto che all’analisi dei flussi). Mentre hanno certamente votato leave le aree più colpite dalla crisi, dunque le fasce più povere, le generazioni più anziane (sarà vero? mah…), gli “illetterati”.

L’argomento che ha accomunato pensosi intellettuali solitari e affannati guerriglieri della tastiera è in sintesi questo: “poveri, ignoranti e anziani non dovrebbero poter votare, perché sono troppo facilmente manipolabili da chiunque, specie dai reazionari”. O perlomeno non dovrebbero votare in ogni occasione, soprattutto in quelle in cui occorre avere una qualche conoscenza approfondita del tema in discussione.

Diciamolo subito: spesso il “popolo lavoratore” vota a cazzo (vogliamo parlare del 18 aprile 1948? allora a “votar male” si decise che siano state le donne, ancora poco avvezze al diritto di voto e succubi dei parroci), spessissimo viene manipolato (quasi sempre, in regime capitalistico; basta vedere la televisione), ancor più spesso non conosce neanche superficialmente il problema su cui è chiamato a decidere (persino sul divorzio se ne sentirono di clamorose, eppure…). Però l’alternativa obbligata al suffragio universale è un diritto di voto ristretto. Le variabili sono in questo caso innumerevoli: a) per censo (votano solo quelli al di sopra di un certo reddito); b) per titoli scolastici (basta la licenza media oppure bisogna ammettere solo quelli con la laurea?); c) per età (oltre ai minorenni, magari abbassando l’età minima a sedici anni, andrebbero esclusi gli anziani al di sopra di una certa età; ma quale? 65, 70, 75?); d) per tema (e allora non si dovrebbero fare più referendum su nessun argomento più complicato del prezzo del pane…; ma chi ha detto che un voto alle politiche o alle amministrative sia dato “in pienezza di coscienza”?).

Come si vede, una volta rotta la diga dell’universalità ci si può sbizzarrire all’infinito. Un po’ come con la proprietà privata: una volta che un bene collettivo non sia più nella disponibilità universale si possono scrivere decine di norme diverse su quanto grande o piccola possa essere la proprietà individuale…

Che una tentazione del genere alligni ai piani alti della classe dirigente è sicuro e anche “normale”: in effetti già ora le scelte fondamentali di ogni singolo paese (la legge di bilancio e dunque la politica fiscale) sono state sottratte ai vari parlamenti, e dunque ai rispettivi popoli (chi non se n’è ancora accorto può chiedere lumi ai greci). Hollande, per imporre la loi travail, ovvero il jobs act alla francese, ha bypassato d’autorità il Parlamento. Quindi qualunque voto popolare…

Che un’idea del genere trovi spazio “a sinistra” è invece segno di marciume intellettuale. Una volta assodato che “il popolino” è – e come potrebbe essere altrimenti? – “ignorante e manipolabile”, il compito di comunisti rivoluzionari, semplici progressisti o “sinceri democratici” è sempre stato quello di fornire al quel “popolino” informazione, cultura, autonomia, capacità critica. È sempre stato insomma un problema da risolvere con il lavoro di massa, l’organizzazione della classe, la “formazione”, il conflitto sociale e politico che rende consapevoli di sé e dei propri diritti (oltre che della propria intelligenza) mettendosi alla prova direttamente.

Quelli che dicono di essere “rivoluzionari” e “comunisti” immaginando di poter cambiare il mondo in compagnia di chi la pensa come loro è bene che si guardino allo specchio. Potrebbero scoprire di esser solo dei noiosi snob, che – come Fassino – scambiano l’ostilità crescente verso il potere per “invidia sociale”, rabbia di strada della racaille (su cui si è giocato la presidenza Sarkozy).

Snobismo a parte, in ogni caso, ci sembra di poter dire che tutto lo strabismo “di sinistra” è causato da una incomprensione decisiva: chi è che ha il potere? Dunque, chi è il nemico principale?

Prendiamo una formulazione non a caso, ricorrente, proposta in forma quasi paradigmatica da un blog certamente antagonista. Citiamo e commentiamo senza alcuna intenzione polemica (nonostante una certa propensione all’insulto propria di quell’autore):

la campagna per uscire dall’Ue sposta l’orientamento politico della sinistra dalla lotta sociale contro i nemici interni alla battaglia contro le istituzioni europee, come se fossero queste il fattore determinante e originario dei problemi sociali. Non è così: l’Ue e la politica della Banca centrale europea esprimono tendenze già ampiamente affermatesi sul piano nazionale. Questo è vero per tutti i paesi europei ed è, se possibile, ancor più vero per il Regno Unito, lo Stato che nella persona di Margaret Thatcher è stato la punta avanzata del sedicente neoliberismo. Specialmente nel Regno Unito, non solo la linea del leave si rivolge contro i bersagli sbagliati, ma è dannosa perché divide gravemente gli stessi lavoratori e la gente comune del Regno Unito fra nazionalismi interni: gran parte (non tutti!) degli inglesi e dei gallesi contro la schiacciante maggioranza di scozzesi e irlandesi del Nord.”

Il nemico principale è quello interno? Se così fosse il proletariato greco aveva già vinto la sua battaglia cacciando il conservatore Samaras e il Pasok di Papandreou, eleggendo Tsipras sulla base di un programma nemmeno rivoluzionario, ma tiepidamente favorevole a ridurre gli effetti del “memorandum” della Troika sulle condizioni di vita della popolazione. Cosa è successo dopo? Lo si è già dimenticato? Strani rivoluzionari, quelli senza memoria dei fatti e con troppe citazioni contraddittorie nella testa…

Davvero le istituzioni europee “ esprimono tendenze già ampiamente affermatesi sul piano nazionale? E allora che bisogno ci sarebbe di trattati sempre nuovi (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack, ecc), di strumenti sempre più costrittivi, di “procedure di infrazione” anche per scostamenti minimi dai parametri di Maastricht (se non ti chiami Francia o Germania, ovvio)?

I nazionalismi dividono i lavoratori, è verissimo. Soprattutto quando questi lavoratori non sono mai stati uniti. A meno di non voler considerare la Ces l’organizzazione sindacale che unisce i lavoratori europei, invece che il cimitero degli elefanti (dirigenti sindacali a fine carriera) che in effetti è. Avete visto lavoratori tedeschi mobilitati contro il jobs act in Italia o in Francia? O almeno contro le riforme Hartz nel loro paese? Si fa fatica persino a organizzare qualche sciopero contemporaneo nelle filiali nazionali della stessa multinazionale (ognuno spera che la chiusura degli stabilimenti tocchi a un altro paese)…

I lavoratori vanno insomma uniti nel conflitto, al di là dei confini nazionali, oppure questa unità è già data dall’Unione Europea?

Detto altrimenti: l’Unione Europea è un quasi-stato in costruzione, che supera e integra quelli nazionali (per vie sempre non democratiche) oppure è la realizzazione imperfetta del “sogno di Ventotene”? È la realtà nemica che abbiamo davanti ogni giorno, quella che pretende sia tagliata la spesa pubblica per pensioni, sanità, welfare, che impone “riforme costituzionali” e del mercato del lavoro, oppure un ammenicolo superficiale che semplicemente “recepisce tendenze già affermate a livello nazionale”?

Da come si risponde a questa domanda discendono due visioni strategiche diverse e opposte. Quella del remain, è un dato oggettivo, è la linea del grande capitale multinazionale, da Soros a Marchionne a Schaeuble. Quella del leave ha un sacco di pessime compagnie, è vero. Contro le quali bisogna battersi, in mezzo alla nostra gente, perché spariscano per sempre.

Bisogna infatti essere marxisti tutti i giorni, non solo quando c’è da sfoggiare citazioni. Le classi sono contraposte da interessi antagonisti, non da opinioni diverse. Se questi interessi – spesso elementari, certo, come l’avere un salario decente, qualche certezza sul futuro, ecc – non vengono rappresentati da chi dovrebbe farlo (la sinistra, i comunisti, i “sinceri democratici”, ecc), c’è sempre il serio rischio che vengano strumentalizzati dalla destra.

Ma non è che, se un interesse di classe giusto viene “fatto proprio” impropriamente e strumentalmente dalla destra, allora quell’interesse diventa “sbagliato”, innominabile, accantonabile. Questo sì, che regala la classe alla destra e lascia campo libero al gioco dei capitali multinazionali…

Pensateci, in fondo avete un po’ di tempo. Il voto per la Brexit non significa uscita immediata, ma “trattative” ad libitum…

Vedi anche:

https://contropiano.org/news/internazionale-news/2016/06/24/referendum-britannico-un-tentativo-analisi-del-voto-080846

https://contropiano.org/news/internazionale-news/2016/06/25/gran-bretagna-petizione-chiede-votare-non-votare-piu-080901

https://contropiano.org/interventi/2016/06/25/brexit-commento-del-partito-comunista-portoghese-080867

https://contropiano.org/news/aggiornamenti-in-breve/esteri/2016/06/24/brexit-la-reazione-unita-popolare-grecia-080844

https://contropiano.org/interventi/2016/06/26/vittoria-della-sovranita-popolare-sconfitta-lasse-uefminato-080876

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