Mi sorge un dubbio: i Questori si cambiano, o si ricorre a cloni di un funzionario nato con l’unità d’Italia? Un dubbio legittimo per chi passa la vita tra carte di polizia riservate e miserabili note di confidenti. La storia ha talora volti impresentabili. Uno, piaccia o no, è quello del potere. Gli metti a guardia limiti e regole, ma sulle zone d’ombra non sorge luce. Prendi il sindacato, per esempio. Oggi sarebbe comico vederci un “covo di terroristi”, ma nel 1893 a Napoli è una minaccia per l’ordine pubblico: un operaio può elemosinare, non lottare per un diritto. Se lo fa, è un “sovversivo” e la Questura lo mette dentro. Quando i lavoratori si associano, il collega di Minniti ne infiltra le organizzazioni per “conoscere il numero complessivo degli iscritti, le generalità, i connotati e un cenno biografico dei capi”. Sono furbi, i Questori. Si muovono nell’ombra, fanno schedature e mandano a Roma le liste dei più “pericolosi”. Se l’operaio parla delle otto ore, del salario e dello sciopero, ecco l’etichetta: “sovversivo”. Senza informare gli interessati, le “autorità”, segnalano i sindacalisti “più influenti affiliati ai partiti sovversivi”. La Questura ricama, la stampa fa da cassa di risonanza, ed ecco nascere “cabine di regia” e “manovre anarchiche”. Per colpire chi disturba i padroni, l’anarco-insurrezionalismo è un’arma vincente nell’Italia liberale, fascista e repubblicana. Gli schedari della Questura sono pieni di rapporti fantasiosi e inverosimili di spie e confidenti che vendono a peso d’oro notizie di terza mano, libere interpretazioni o invenzioni di trame rivoluzionarie. Costruita la trama, parte la denuncia: “si punta a fomentare le passioni, a coalizzare, con mire evidentemente politiche e avverse all’attuale stato di cose”. Perché? Per “trarre partito dal malcontento che serpeggia nelle varie classi operaie”.
In questi giorni, leggendo i giornali e ascoltando il Questore, mi è sembrato di essere in archivio tra le carte del 1893. Allora come oggi, le cause del malcontento non interessano nessuno. Contano i “sovversivi”. Quasi sempre presunti. Si costruiscono teoremi e si fanno girare inverosimili soffiate di confidenti. Così, per tornare al passato, fa paura persino una bevuta “in una bettola fuorigrottese, ove si legge una lettera pervenuta da Palermo”. Nessuno sa che c’è scritto, ma è certo: è un piano rivoluzionario al quale, suggerisce un infiltrato a caccia di quattrini, “prenderebbe parte un giovane prete dimorante al Vomero”. Il condizionale la dice lunga e il senso del ridicolo consiglierebbe più serie riflessioni, ma “in alto” si preme. Per colpire gli operai, la Questura induce il proprietario di uno stabile a sfrattare i sovversivi, la Procura “garantisce che dal locale Pretore sarà emessa relativa ordinanza e, nello stesso giorno in cui giunga, fatta eseguire”. Per le accuse è presto, ma il Questore trasmette in via riservata alla Procura Generale copia dei rapporti destinati al Prefetto. La procedura é inusuale ma serve allo scopo e si giunge al punto di denunciare gli autori di un manifesto che due settimane prima è stato giudicato del tutto legale. I lavoratori scoprono un provocatore, un ex agente di PS, lo espellono, ma qualcuno lo inserisce nell’elenco degli iscritti “ritoccato” dopo il sequestro, e in Tribunale fa la sua parte di testimone. Falso naturalmente. Per un po’ si cerca un’imbarcazione “comandata da un maltese, che dovrebbe arrivare dall’Albania con armi da sbarcarsi lungo la marina di Licata e Porto Empedocle”. Nessuna la trova e le perquisizioni senza mandato non tirano fuori carichi di armi, ma la “velina” della Questura giunge a giornali compiacenti e crea un clima di tensione giustificato, scrivono le Autorità, dalla “necessità di opporsi con energia al movimento che nelle presenti condizioni economiche e morali di queste basse classi sociali, può da un momento all’altro gettare la città in preda allo scompiglio”.
Occorrono imputati “deferiti al potere giudiziario sotto il titolo di Associazione di malfattori”. Cos’, scrive il Prefetto; poi, Creato l’allarme, il solito confidente tira fuori un misterioso piano di rivolta imminente a Palermo, Messina e Napoli. Inizierà, si dice, con “incendi dolosi appiccati nella notte”. La Questura, avuta “notizia sicura che gli incendi si sarebbero praticati nella nottata mediante petrolio e acqua ragia” di cui sarebbero intrisi “stoppacci accesi gettati negli scantinati”, mette in moto “pattuglie che percorrono la città in tutti i sensi con ordine di fermare, perquisire e arrestare”. Nel cuore della notte sono presi due individui, che, guarda caso, hanno con sé due bottiglie di acqua ragia e un foglio con la scritta a mano: “Viva la rivoluzione sociale”. Due terroristi e due bottiglie di acqua ragia sarebbero ben povera cosa per una rivoluzione, ma la Squadra Politica sostiene che mille compagni, impauriti, si sono ritirati. Nella fretta, la Questura sbaglia la data dell’arresto e anticipa d’un giorno la rivolta, ma per i giudici va bene così. La fantomatica rivolta non c’è, ma due bottiglie d’acqua ragia e le chiacchiere di un sarto arrestato, che si “pente” bastano e avanzano.
Al processo, tutto si basa su insinuazioni di anonimi confidenti della Questura. La difesa chiede di interrogarli, ma il giudice rifiuta, perché “le informazioni dei confidenti trovano riscontro negli atti”. E’ verità di fede. I due “terroristi” negano: l’acqua ragia è strumento di lavoro. Nessuno gli dà retta. Degli agenti che testimoniano, uno è colto con un foglietto da cui legge appunti e nomi d’imputati; un altro manda su tutte le furie il giudice che lo interroga perché ricorda “cose molto differenti da quelle risultanti nella deposizione scritta”. Un ispettore, infine, messo alle strette dalla difesa, ammette che gli imputati non sono sovversivi pericolosi. Il giudice preoccupato, scrive allora al Questore per fargli “raccomandazioni sul contegno di funzionari e agenti che dovranno essere intesi, non potendo in caso contrario garantire l’esito del processo”. Preoccupato è anche Crispi, Presidente del Consiglio, che ingiunge al Prefetto “di sollecitare il più possibile il pronunciato della Camera di Consiglio, ritenendo opportuno lo scioglimento del sindacato”. In quanto al sarto, il testimone chiave ritratta le dichiarazioni rese in istruttoria e narra la storia di durissimi interrogatori, di lunghi digiuni e della privazione dell’acqua. La polizia, racconta, l’ha convinto a firmare una dichiarazione falsa e già preparata. Dopo un’altalena di violenze e lusinghe, ha ceduto in cambio di 500 lire, un passaporto e la sistemazione delle figlie. L’uomo non mente. In archivio la polizia ha dimenticato la ricevuta della cifra pattuita firmata da un ispettore. Il processo è una farsa, ma Il sindacato è disciolto e i sindacalisti sono spediti in galera.
Un caso eccezionale? No. Nel 1914, quando l’Italia prepara la guerra, l’ostacolo sono gli operai antimilitaristi. A giugno del 1914 l’esercito liquida il conto, sparando sui lavoratori. A Napoli sono ammazzati quattro dimostranti. Due sono operai di 16 anni. Polizia e bersaglieri sostengono di aver sparato una sola volta per legittima difesa e poiché i morti si sono trovati in due vie diverse, si “aggiustano” gli atti. Un testimone ferito, arrestato, si rimangia le accuse e “per imperiose ragioni di ordine pubblico”, uno dei due morti è nascosto “nella sala mortuaria del Trivio”, il cimitero ebraico. Mentre per giorni la povera madre cerca il figlio ucciso, si prende tempo e si concorda una versione tra i Commissariati di quartiere. “Prego redigere un unico rapporto ribadente questo solo punto di vista”, scrive il Questore ai dipendenti: “c’è stato un unico conflitto a fuoco. Confido nella solerte abilità ed attendo un preciso rapporto per il quale è opportuno prendere accordi col Colonnello che comandava la truppa”. Un giudice mota che “l’esame necroscopico e gli accertamenti generici escludono che uno degli operai sia morto con gli altri”, ma tutto è sepolto in archivio, anche la verità narrata da un veterinario, finito in ospedale per uno scontro a fuoco in cui è morto un lavoratore. La via dei tumulti non è quella indicata dalla Questura.
Si può dire ciò che si vuole, ma le cose stanno così: negli anni settanta una legge della Repubblica ha dichiarato “perseguitati politici” 12.981 lavoratori e 2.078 lavoratrici che tra il 1948 e il 1966, hanno dato fastidio. In Archivio ci sono ancora i telegrammi della polizia repubblicana che pedina il mio amico Gaetano Arfè, partigiano, storico di prestigio e direttore dell’Avanti, che è in contatto con quell’autentico pericolo pubblico che risponde al nome di Giorgio Napolitano. Chi non ci crede, controlli. In archivio Sandro Pertini è ancora schedato come malfattore. Lo tenne prigioniero a Ventotene un camerata del noto Almirante, per dirla col linguaggio dei questurini: Marcello Guida, direttore della colonia penale fascista di Ventotene, ove fu prigioniero anche Terracini, che poi firmò la nostra Costituzione. Chi non se ne ricorda, si informi. Scoprirà che il 12 dicembre 1969, quando una bomba fascista fece strage a Milano, all’epoca italiana e oggi capitale della Padania, il Questore che coordinava le indagini era Marcello Guida. E fu lui, Guida, a mentire agli italiani sostenendo che l’attentato era opera di anarchici insurrezionalisti. Pochi giorni dopo il povero Pino Pinelli, volò dal quarto piano della Questura retta dal Guida, alto funzionario fascista e incredibile Questore della Milano antifascista. Malore attivo, si disse, ma non è chiaro che voglia dire.
Si potrebbe continuare a lungo, giungere a Genova e Cucchi, ma a che serve?
Sbaglierò, ma in questi giorni sento puzza di montatura. Per ora si sono indicati ignoti colpevoli all’opinione pubblica. Poi verranno il reato e i nomi. Senza aspettare un sarto che si penta, si può azzardare una profezia: i nomi li hanno già fatti i giornali e in quanto al reato, da noi vige ancora il codice del fascista Rocco, con la devastazione e il saccheggio pensati per gli oppositori del regime. Nessuno lo dice ma mentre scrivo c’è un ragazzo che sconta 14 anni di carcere per un bancomat distrutto. Un lavoratore ucciso sul lavoro ti costa un anno e il carcere non lo vedi manco da lontano.
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