“L’Ordine del G7 è quello Nato” scriveva pochi giorni fa su Il Manifesto Manlio Dinucci, intendendo però esattamente il contrario di quanto, a nostro avviso, la riunione a Bruxelles dei paesi aderenti al Patto Atlantico avesse appena evidenziato. Così come il fallimentare vertice siciliano del G7, infatti, anche quello dell’Alleanza Atlantica si è risolto con un roboante nulla di fatto, che non è sfuggito ad attenti osservatori sia sulla stampa italiana sia su quella internazionale, preoccupando i sostenitori dello schieramento unitario transatlantico.
Secondo Dinucci, solitamente attento osservatore dell’evoluzione dell’Alleanza militare- che negli ultimi anni ha rilanciato la militarizzazione dell’Europa settentrionale ed orientale nel tentativo di rafforzare il controllo statunitense sul nostro continente – il vertice di Bruxelles avrebbe inanellato diversi successi: Trump ha strigliato i partner europei affinché aumentino almeno al 2% del Pil le spese destinate a foraggiare la Nato; il Summit ha annunciato che l’Alleanza entra nella ‘Coalizione globale contro l’Isis’ guidata da Washington; il vertice ha deciso un aumento delle truppe Nato in Afghanistan. Per non parlare dell’ingresso ufficiale nella Nato del Montenegro, che diventa così il 29° aderente in quei Balcani che sono fondamentali per il controllo del fronte sud-orientale.
Ma nel suo articolo Manlio Dinucci non cita vari e gravi motivi di preoccupazione – o di entusiasmo, a seconda dei punti di vista – che invece non sono affatto sfuggiti a numerosi altri commentatori.
Tra questi c’è Antonio Li Gobbi, del sito ‘Analisi Difesa’, che in un articolo dal titolo più che esplicito – “Summit NATO: una scatola vuota?” – descrive l’ultimo vertice della Nato come inconcludente e fallimentare. “Il 25 maggio, in fretta e furia, tra un incontro di Trump con la leadership dell’Unione Europea e il volo che aspettava i “grandi“ per portarli a Taormina, ci si è ritagliati anche un paio d’ore per il Summit NATO” scrive Li Gobbi, secondo il quale “L’impressione è che si volesse solo garantire una “photo opportunity” senza il rischio di confronti di idee che avrebbero potuto essere fonte di imbarazzo (…) in un momento in cui la NATO fatica a ritagliarsi un ruolo significativo e a destreggiarsi tra le visioni totalmente divergenti in materia di sicurezza internazionale dei suoi membri. (…) Il risultato è stato più povero di contenuti di quanto si potesse ambire anche nel difficile contesto delineato”.
A proposito delle decisioni finali del vertice Li Gobbi si dimostra scettico. Sia per quanto riguarda l’ingresso nella coalizione contro l’Isis (di cui tra l’altro fanno già parte praticamente tutti i paesi aderenti all’Alleanza Atlantica) sia per quanto riguarda l’aumento del proprio budget militare. Se la prima deliberazione non implica un reale ingresso nella scena Medio Orientale ma costituisce una sorta di proclama di belligeranza simbolica (“La NATO non porterà alla campagna anti-terrorismo propri assetti”, a parte qualche AWACS, precisa l’articolista di Analisi Difesa), il fatto che a tre anni dal vertice gallese del 2014 che decise l’aumento della spesa militare in quota Nato se ne continui ancora a parlare dimostra quanto l’Alleanza sia in crisi.
Come ricorda lo stesso Dinucci, finora, oltre agli Usa, solo Grecia, Estonia, Gran Bretagna e Polonia hanno ritagliato nel proprio Pil una spesa militare superiore al 2%. Atene, nonostante la crisi nera in cui è stata precipitata dalla Troika, spende addirittura il 2,36% del proprio budget, mentre l’Italia ad esempio è “ferma” all’1,55%, il che comunque equivale a ben 70 milioni di euro al giorno. Gli Usa, che spendono il 3,6% del proprio Pil per sostenere l’Alleanza Atlantica, tirano calci nei confronti di quegli europei che di fatto vorrebbero usare l’ombrello fornito da Washington per perseguire obiettivi divergenti rispetto a quelli dettati dal Pentagono
Fin dall’inizio della sua campagna elettorale Trump intima ai partner euro-atlantici di aumentare gli stanziamenti di sostegno alla struttura della Nato, foraggiata al 75% da Washington, ma i paesi dell’Unione Europea non ne vogliono sapere. L’economia dell’Ue è ancora sostanzialmente asfittica, e non tutti i paesi vogliono e possono permettersi un drastico aumento della spesa militare. Soprattutto, i paesi europei hanno già deciso sia in sede statale che comunitaria di destinare una fetta sempre maggiore della propria spesa militare alla creazione di un esercito e di un complesso militare-industriale europei sganciati dalla catena di comando di Washington, funzionali alla proiezione internazionale dei propri interessi egemonici. Se qualche aumento del budget militare ci dovrà essere sarà, semmai, destinato ad accelerare la creazione di quella Difesa Europea Integrata che dopo la decisione da parte di Londra di fare da sola e l’elezione di Trump ha subito un forte rilancio.
Anche perché, ricorda Li Gobbi, gli Usa utilizzano la Nato per perseguire propri scopi che nulla hanno a che fare con quelli dei paesi europei – vedasi l’aumento dei militari in Afghanistan, che di fatto saranno solo statunitensi – oltre che per foraggiare il proprio complesso militare-industriale a spese del Vecchio Continente: “chi ci fustiga chiedendoci di spendere di più per la Difesa è anche il presidente-piazzista che già abbiamo visto brillantemente in azione a Riad. Il presidente cioè della nazione che detiene tutti i primati nel settore della produzione della difesa, il cui comparto industriale non potrebbe che beneficiare di un incremento dei budget della difesa di quei paesi europei, che nonostante gli sforzi dell’EDA (European Defence Agency) continuano a comprare oltreoceano”.
“In conclusione – scrive Analisi Difesa – la NATO non poteva aspettarsi molto dal Summit in questo frangente internazionale, ma se per evitare contenziosi era necessario annacquarlo a tal punto, forse poteva essere il caso di non farlo proprio”.
Se Li Gobbi ed altri si incaricano di sminuire la portata pratica delle decisioni assunte al vertice di Bruxelles, altri commentatori puntano l’attenzione su ciò di cui non si è discusso affatto.
“Molto si è detto sulla scelta di Trump (…) di non citare l’impegno contenuto nell’articolo 5 del Trattato di Washington, per cui qualsiasi attacco militare contro un alleato è considerato un attacco contro tutti: lo invocammo una volta sola, dopo l’attacco terroristico dell’11 Settembre 2001, ma è il fondamento della Nato, l’organizzazione militare transatlantica. L’omissione è grave, non tanto in pratica (…) quanto politicamente e strategicamente” fa notare Stefano Silvestri, direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.
A notare il mutismo sull’art.5 del Trattato di Washington che racchiude l’essenza stessa, il cemento della solidarietà atlantica è anche Adriana Cerretelli sul Sole 24 Ore. Quell’articolo 5 già disatteso nel 2003, quando l’Ue si sfilò dalla seconda guerra contro l’Iraq, e poi ancora nel 2008, quando gli Usa tentarono di trascinare i partner europei nel conflitto tra Georgia e Russia, incassando nuovamente il No di Parigi e Berlino.
A proposito degli eventi degli ultimi giorni – il fallimento del G7 e del vertice Nato – in un articolo intitolato “Se Trump e Merkel riscrivono la storia”, Adriana Cerretelli parla a ragione di “strappo lacerante tra le due sponde dell’Atlantico”.
“Il suo venir meno (della solidarietà euro-atlantica sancita nell’articolo 5 del Patto Atlantico, ndr) segnerebbe il tramonto dell’Occidente nella versione che ha dominato e stabilizzato il dopoguerra. Per gli equilibri mondiali sarebbe un terremoto geopolitico della stessa devastante portata dell’implosione dell’Unione sovietica dopo la caduta del Muro di Berlino” sentenzia l’editorialista del Sole 24 Ore.
Quanto sta accadendo negli ultimi giorni non solo conferma ma anzi approfondisce il quadro delineato dal plastico fallimento di quelle camere di compensazione – prima il Wto, poi il Ttip, poi il G7 e il vertice Nato – che avevano caratterizzato gli ultimi decenni, contrassegnati da un’egemonia assoluta statunitense sempre più messa indiscussione dall’emergere di nuove potenze internazionali e, tra queste, di un polo imperialista europeo che nonostante tutte le sue debolezze e contraddizioni rappresenta ormai un soggetto attivo della competizione interimperialistica.
Non è un caso che la normalmente prudente e riflessiva Angela Merkel, nel corso di un comizio elettorale in Baviera, si sia lasciata ‘sfuggire’ alcune dichiarazioni che suonano come una sorta di storico ‘l’Europa agli europei”.
«I tempi in cui potevamo fare pienamente affidamento sugli altri sono passati da un bel pezzo, questo l’ho capito negli ultimi giorni. Noi europei dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani» ha scandito la Cancelliera rinfrancata dalla vittoria in Francia dell’europeista e tecnocrate Emmanuel Macron, che ridà linfa e slancio ad un progetto di integrazione continentale su più fronti che Berlino e Parigi hanno intenzione di rafforzare a tappe forzate.
“La Germania di Angela Merkel (…) prima ha intonato il requiem sulla fiducia inter-alleata ferita a morte e poi il gloria al patriottismo europeo, all’Europa che deve tornare padrona del proprio destino” scrive Cerretelli, secondo la quale non tutti i mali – la frattura euro-atlantica – vengono per nuocere, anzi.
Mentre i politici e i giornalisti benpensanti accusano il presidente americano di aver provocato la rottura con le sue politiche isolazioniste e i suoi toni intransigenti, la verità è, per dirla con Adriana Cerretelli, che “Trump è anche lo shock esterno di cui l’Europa ha assoluto bisogno per rimettersi in marcia e ritrovare grinta. Per questo con estremo cinismo la Merkel ne approfitta, ora che ha una spalla attiva e volonterosa nella nuova Francia di Emmanuel Macron, per provare a ricompattare l’Unione, e la sua Germania, intorno a un patriottismo europeo ovunque in disuso sulla scia di un nazional-populismo d’assalto che però da qualche mese appare in frenata”.
Ne è ancora pià convinto il presidente dello Iai, Ferdinando Nelli Feroci, che parla esplicitamente di una ‘grande finestra di opportunità per una rilancio del progetto europeo”:
“Sviluppi e nuovi impegni nel campo della sicurezza e di una dimensione europea di difesa, completamento della governance dell’Euro, un nuovo governo dell’economia (…), dovrebbero essere i settori su cui andare rapidamente a testare la volontà e la determinazione degli europei di “riprendere in mano il loro destino”.
Notando che Francia e Germania sembrano pronte a “raccogliere la sfida”, Nelli Feroci auspica che anche l’Italia sia pronta a fare la sua parte, partecipando da protagonista alla nuova fase.
L’entusiasmo del presidente dello Iai per lo strappo europeo e per quella che in molti già considerano una vera e propria dichiarazione di indipendenza nei confronti di Washington si trasforma in tifo da stadio nel commento di Massimo Fini sul Fatto Quotidiano.
“Finalmente un leader europeo ha avuto il coraggio di affermare che gli Stati Uniti non sono più gli alleati di sempre, che l’Europa non è più disposta a farsi tappeto di fronte alle loro iniziative e che deve fare da sola sia economicamente che militarmente” scrive l’intellettuale di destra il quale nota che “I giornali italiani, come sempre più realisti del re, hanno preso (le) parole di Merkel come una dichiarazione di guerra a Trump. Non è così, è una dichiarazione di guerra agli Stati Uniti tout court e Trump è stato solo un pretesto, utilissimo vista la scarsissima considerazione di cui il presidente Usa gode in Europa”. E poi ancora, citando un aspetto che sembra sfuggito ai più: “L’Europa, indebolita dal punto di vista militare dall’uscita di una potenza nucleare come la Gran Bretagna ma nello stesso tempo anche rafforzata dalla Brexit perché gli inglesi sono strettissimi alleati degli americani, deve finalmente farsi un proprio esercito come avevano già tentato di fare tedeschi e francesi a metà degli anni 80, ma che erano stati bloccati dagli Stati Uniti perché, obbiettavano, c’era già la Nato”.
Ricordando che comunque in Europa gli Usa hanno centinaia di basi militari e decine di migliaia di soldati che sarà assai difficile mandare a casa, Massimo Fini rispolvera il vecchio slogan “Yankee go home” piegato però ad una visione euronazionalista.
Insomma se da una parte – Franco Venturini sul Corriere della Sera ma anche gli ambienti di sinistra sia moderata sia ortodossa in cui prevalgono ancora le visioni come quelle di Dinucci – continuano a negare o a sottovalutare la rapida strutturazione dell’imperialismo europeo sia sul fronte militare che su quello politico ed economico, dall’altra aumenta l’elenco di coloro che non solo colgono la crescente divaricazione tra Bruxelles e Washington ma anzi auspicano una Unione Europea più forte e unita anche sul piano della proiezione bellica.
Che poi è la prospettiva del cosiddetto nucleo duro dell’Ue, Francia e Germania in primis, che negli ultimi mesi hanno schiacciato il piede sull’acceleratore approfittando dell’ascesa al potere di Trump e della Brexit. Proprio mentre i cosiddetti ‘7 grandi della Terra’ si riunivano a Taormina, la rivista statunitense Foreign Policy pubblicava un articolo dal titolo «La Germania sta costruendo in silenzio un esercito europeo sotto il suo comando». Mentre la Francia fornirà quell’arsenale nucleare senza il quale nessun progetto di indipendenza militare da Washington appare credibile, la Germania ha già da un anno cominciato a costruire – “senza clamore”, come afferma il magazine Usa – quello che sarà il futuro esercito europeo, inglobando truppe di altri paesi all’interno delle sue forze armate e sotto il proprio comando. Berlino aveva già cominciato un anno fa, fondendo – o meglio, annettendo – l’esercito olandese alla Bundeswehr. Nei prossimi mesi, poi, la Romania integrerà la sua ottantunesima brigata nella Divisione delle Forze di Risposta Rapida delle forze armate della Germania, mentre una brigata della Repubblica Ceca diverrà parte della decima divisione corazzata tedesca.
Carlo Masala, professore di relazioni internazionali all’Università della Bundeswehr di Monaco, spiega alla rivista statunitense che l’intento di Berlino è creare un network di mini-eserciti europei guidati dalla Germania; una strada molto pragmatica, molto tedesca, lontana dalle lungaggini, «un tentativo di evitare che la difesa comune europea fallisca. (…) «Tutti i Paesi più piccoli (in termini militari) che non hanno risorse, personale ed equipaggiamento per mantenere un’adeguata difesa sono potenziali soggetti di questa politica» dice Masala citato da Angela Manganaro sul Sole 24 Ore.
Di fatto la Germania ottene due risultati: da un lato subordina il processo di costruzione dell’esercito e del complesso militare-industriale alla sua catena di comando e ai suoi interessi economici, dall’altro pone tutti gli altri partner davanti al fatto compiuto, prima ancora di riuscire a trainare tutti i partner dell’Ue nella nuova dimensione del progetto di integrazione continentale. E questo nonostante negli ultimi mesi le istituzioni dell’Unione Europea abbiano deciso all’unanimità vari importanti step in questo senso, decidendo anche lo stanziamento di ingenti risorse economiche – extra vincoli di bilancio – a sostegno del programma militare unificato e forzando rispetto ai paese più recalcitranti, come quelli dell’Europa Orientale, grazie alle cosiddette ‘cooperazioni rafforzate’ o “Europa a più velocità” che dir si voglia.
Da questo punto di vista la Francia, che pure è stata da sempre il paese europeo più recalcitrante a sottostare alla catena di comando statunitense all’interno della Nato, si trova ora in ritardo rispetto all’accelerazione impressa da Berlino. Non è un caso che subito dopo i due vertici falliti il neopresidente abbia incontrato Vladimir Putin, lanciando al resto dell’Ue, agli Usa e alla stessa Mosca due messaggi più che espliciti: da una parte dichiarando la rottura, da parte europea, dell’isolamento e dell’accerchiamento inflitto alla Russia su spinta statunitense, dall’altra annunciando chiaramente che Parigi, e l’Unione Europea tutta, considerano la Siria e l’Ucraina territori e temi di propria pertinenza sulla quale sono disposti al conflitto con i propri competitori. Il tradizionale richiamo alla difesa dei diritti umani da parte di Macron è apparso obbligatorio ma poco convincente, sovrastato dall’enunciazione senza fronzoli delle aree del globo che interessano all’imperialismo europeo.
Per cercare di recuperare ruolo e centralità in un processo d’integrazione europea che viaggia sempre più veloce, la Francia dovrà ergersi a paladina – e quindi cooptare – l’area euromediterranea rispetto ad una Germania che la fa già da padrona nei Balcani e nell’Europa orientale.
Dopo la plateale rottura tra Frau Merkel e Donald Trump non può sfuggire che l’attivismo diplomatico della Germania abbia assunto dimensioni plateali e planetarie. Nel giro di due giorni la Cancelliera ha incontrato prima il premier indiano e poi il ministro degli esteri cinese. In ballo ci sono una pioggia di miliardi di contratti e commesse – assicurati soprattutto dalla cosiddetta ‘Via della Seta 2.0’ – oltre che il ridisegno degli equilibri di potere un mondo nel quale gli Stati Uniti contano sempre meno.
In uno scenario simile e tutto in movimento è difficile pensare ad una implosione della Nato, piuttosto è prevedibile un suo relativo congelamento – che del resto ereditiamo già dall’amministrazione Obama – e una sua trasformazione in un’Alleanza ‘a la carte’, dalla quale ognuno dei blocchi aderenti prenderà ciò che reputerà conveniente per i propri interessi. E comunque il ruolo di ‘primus inter pares’ che gli Usa hanno sempre svolto nella Nato è già morto e sepolto, a vantaggio di un’alleanza costruita su due corni alleati ma anche in competizione, quello anglo-americano e quello europeo.
Quali che siano i tempi della costruzione dell’esercito europeo e dello sganciamento dell’Unione Europea dalla sudditanza tradizionale nei confronti di Washington è difficile dirlo, ma che le due sponde dell’Atlantico si stiano allontanando ormai è innegabile. Di fronte ormai non abbiamo più “l’imperialismo” – quello Usa che inglobava e sottometteva tutto il campo occidentale – ma “gli imperialismi”, con un polo europeo sempre più aggressivo e protagonista. Una situazione di fronte alla quale si trovarono i movimenti socialisti e operai europei all’inizio del secolo scorso. Una lunga fase storica che vide prima la guerre coloniali e i conflitti tra alcuni dei paesi imperialisti per poi sfociare in una prima e in una seconda guerra mondiale devastanti. Uno scenario di fronte al quale la maggior parte dei movimenti socialisti decise di schierarsi con le proprie borghesie contro i lavoratori e i popoli dei paesi competitori votando i ‘crediti di guerra’, mentre una parte minoritaria ma lucida e battagliera del movimento operaio internazionale tentò – con successo in Russia – di trasformare la guerra imperialista in rivoluzione.
da http://www.retedeicomunisti.org
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