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A chi da fastidio il lavoro di Geraldina Colotti?

Da qualche giorno la compagna e giornalista del manifesto Geraldina Colotti è vittima di un vero e proprio linciaggio (per fortuna solo virtuale) scatenato dal dissociato Enrico Galmozzi. Poca roba e pure triste, se non fosse che la vicenda ha progressivamente assunto i sordidi caratteri della resa dei conti. A difendere l’attacco gratuito e meschino del dissociato sono infatti intervenuti addirittura diversi colleghi della stessa Geraldina. Mascherato da ambigue disquisizioni sulla deontologia giornalistica s’intravede un linciaggio politico per interposta polemica. Perché tutto questo? Noi siamo inevitabilmente di parte: Geraldina è una “nostra” compagna, mentre Galmozzi è solo un dissociato. Il discorso potrebbe chiudersi qua, eppure sentiamo comunque il bisogno di parlarne perché, nonostante la distanza siderale che divide le nostre posizioni politiche con quelle del manifesto, ne abbiamo un rispetto che travalica questa stessa distanza.

Il manifesto è, o per meglio dire potrebbe essere, ancora uno strumento utile e importante nel dibattito della sinistra. E’ un organo di informazione ma anche un luogo dove pezzi di questo dibattito emergono dal sottosuolo militante nel quale oggi sono forzatamente confinati. Svolge un ruolo politico e pubblico, notevolmente depotenziato dalle scelte politiche di quel collettivo di giornalisti, ma che va salvaguardato e, laddove possibile, orientato verso una pluralità di posizoni in grado di rispecchiare ciò che si muove a sinistra. Ecco perchè i caratteri di questo scontro ci interessano e in una qualche misura ci riguardano. Il linciaggio di Geraldina è un fatto pubblico perché i caratteri dello scontro sono tutti di natura politica, anche laddove presentati sotto altra forma.

Geraldina Colotti porta avanti da anni una chiara posizione politica sul Venezuela e il socialismo bolivariano. E’ l’unica “voce contro” che è possibile leggere o ascoltare nel panorama mediatico italiano di un qualche rilievo. Tutto il resto dell’universo mediatico, di destra, di sinistra, di centro, populista o anti-populista, combatte il processo politico bolivariano, in Venezuela come altrove in America latina. Il manifesto, grazie agli articoli di Geraldina, è l’unico luogo massmediatico dove è possibile leggere una difesa del socialismo del XXI secolo. Nel fare questa opera di meritoria contro-informazione Geraldina è sola. Da una parte c’è quella sinistra che non vede l’ora di sbarazzarsi di Maduro e del chavismo; dall’altra un piccolo giornale che non ha la forza economica di garantirsi un inviato stabile sul posto in grado di fare “vero giornalismo”, come si usa dire oggi anche tra compagni. Tanto basta però per metterla sul banco degli imputati e condannarla nel nome del sacro professionismo giornalistico, quello che non deve prendere posizione ma solo “riportare i fatti”, come se questi non fossero già orientati ideologicamente, manipolati alla radice e incapaci di far luce su alcunché se non attraverso operazioni di demistificazione costante. L’escamotage attraverso cui si vorrebbe colpire il punto di vista di Geraldina è allora non solo disonesto, ma anche frutto di quella torsione borghese che costringe il “giornalismo” a riflesso dell’esistente.

E’ il merito della critica ad affiorare dal velo metodologico attraverso cui viene presentata allora. Il problema è proprio la difesa di Maduro. Se infatti Geraldina si fosse limitata a non prendere posizione, ad operare quel “sano” distacco che presenta aggrediti e aggressori su di un piano di falsa parità, nessuno si sarebbe sognato di dire alcunché sulla caratura giornalistica degli articoli. Anzi, si sarebbe plaudito all’imparzialità, altro mito borghese ormai tracimato nella sinistra, con tanta pace dei fatti e della relativa stuoia di fonti che ne dovrebbero sorreggere la verifica.

[Esempio di solidarietà redazionale]

Il problema è politico, si sarebbe gridato una volta, e riguarda l’Italia, non il Venezuela. Ad essere condannata è la visione del mondo che emerge dagli articoli di Geraldina, che “sfrutta” l’esempio bolivariano per dire che, se esiste un futuro per la sinistra, questo si trova nella capacità di tenere insieme il conflitto, il consenso e il potere, in una traiettoria capace di spostare materialmente in avanti le condizioni di vita di milioni di subalterni. Il socialismo del XXI secolo è tutto fuorché un processo lineare e chiaro. Al contrario, è vittima di enormi contraddizioni interne e di giganteschi problemi oggettivi. Un fatto questo che ripetiamo da sempre. Ma nel momento in cui questo processo è sotto attacco da parte della borghesia nazionale e dall’imperialismo internazionale, le pur doverose critiche devono farsi da parte, sostenendo senza se e senza ma un esperimento comunque progressivo, comunque socialista. A dare fastidio non è (tanto) il socialismo, ma il socialismo che prende il potere, che si confronta con la complessità delle relazioni sociali. Il socialismo senza macchia degli sconfitti è destinato ad eccitare una certa intellettualità immateriale, ne siamo consci, ma la gestione del potere politico cambia il destino dei proletari. E’ questo fatto a costituire un terreno di scontro, scontro purtroppo – nel caso in questione – degradato rapidamente in squallida gogna pubblica.

In ultimo, però, è necessario sottolineare un’ulteriore questione di metodo. Non viviamo né abbiamo vissuto gli anni Settanta, siamo purtroppo irrimediabilmente lontani da quella stagione di lotte di classe. Non siamo allora reduci di alcunché, motivo per cui non ci accaloriamo neanche sui temi della dissociazione e del pentimento. Ma in politica, soprattutto nella politica rivoluzionaria, esistono dei paletti. Non abbiamo alcun accanimento verso questo o quel dissociato, a patto che questo abbia smesso con l’attività politica. Chi ha deciso di uscire dalla militanza politica attraverso la dissociazione non può rientrarci legittimato unicamente dall’oblio che circonda quella storia. La dissociazione è stato lo strumento utilizzato dallo Stato per spezzare una generazione di militanti politici, non solo quelli appartenenti alla lotta armata. Ha impedito negli anni Ottanta di riattivare percorsi di militanza rivoluzionaria, ha soffocato la sinistra di classe, ha stroncato la vita di molti compagni mentre altri uscivano puliti grazie alla svolta individuale di resa al nemico. Storie passate ma, come detto, che segnano un confine tra chi può e chi non può tornare a parlare di politica. Il dissociato Enrico Galmozzi non può. Può continuare a fare della sua vita ciò che vuole, ma non può trovare legittimato il suo pensiero politico, perché la dissociazione è un fatto collettivo i cui frutti ancora avvelenano le lotte di classe. Nel caso in questione, parliamo peraltro di un personaggio nel frattempo divenuto macchietta di se stesso. Ma anche ci fosse quel dissociato in grado di produrre un discorso serio, condivisibile, opportuno (e, nel tempo, li abbiamo incontrati, letti, ascoltati), rimane in piedi il paletto di cui sopra: un dissociato ha chiuso la sua esperienza politica. L’ha chiusa male, ma l’ha chiusa. Non può riaprirla non pagando lo scotto di ciò che è stato e che ha contribuito direttamente a generare, cioè la dissociazione come strumento di pacificazione sulla pelle di altri compagni. Non giudichiamo davvero: non sappiamo, se non per sentito dire, il peso della catastrofe che si abbatteva sui compagni sul finire degli anni Settanta. Non giudichiamo il cedimento di chi, magari addirittura sotto tortura o con lo spettro di marcire in galera, abbia scelto la fuga individuale. Capiamo chi, protagonista di quella storia, ancora giudica senza pietà. Non siamo fra questi, perché non siamo stati protagonisti di nulla. Il presente, al contrario, ci riguarda. Leggere di un dissociato che si permette di giudicare il lavoro di una compagna mai pentita, mai dissociata, mai arresasi allo Stato e ai suoi cani da guardia, ci racconta solo dell’imbarbarimento epocale che viviamo e che i social network hanno contribuito ad alimentare. Se c’è un’unica nota di inflessibilità in tutto il discorso, è questa. Ci dispiace che i compagni del manifesto stiano contribuendo ad alimentare questo equivoco, che si riversa direttamente su chi, come noi, continua ad essere un militante politico. Noi stiamo con Geraldina e, se ha ancora senso la parola solidarietà al tempo delle relazioni sociali virtualizzate, dovrebbero stare con Geraldina tutti i compagni, a prescindere dalle posizioni politiche di ciascuno.

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