Parlare di “repressione” comporta sempre alcuni rischi. In primo luogo quello di interpretare il presente con gli occhi del passato, come se le cose fossero sempre uguali, perdendo di vista il connotato particolare che bisogna invece mettere a fuoco.
A 40 anni dal ‘77, di nuovo a Bologna, questo rischio può diventare paralizzante.
La repressione è infatti una costante. Chiamiamo con questo termine quell’intervento politico dello Stato che cerca di porre un limite temporaneamente invalicabile – giuridico e militare – all’azione dell’opposizione sociale e politica, sia “riformista” che rivoluzionaria. Un limite che varia nel tempo, che è oggetto di contesa continua ma che, proprio per questo, non può essere ridotto a “problema tecnico” (giuridico, fondamentalmente).
Lo scarto tra allora e oggi non potrebbe essere più grande. Nell’intero ‘77, senza neanche calcolare gli innumerevoli scontri di piazza, si contarono circa 3.000 azioni armate condotte da gruppi di sinistra, praticamente 10 al giorno, in ogni regione del paese. Per capire le dimensioni di massa del fenomeno, soltanto una ventina di queste erano riconducibili al gruppo più noto, le Brigate Rosse.
Oggi il massimo della “violenza” agìta dalla sinistra radicale si traduce in qualche raro bancomat danneggiato o in sassaiole da distanze siderali; oppure ancora in un paio di file di ragazzi che camminano verso la polizia fino a essere travolti dalle manganellate (e dalle denunce, che spesso sconsigliano un ulteriore impegno politico).
A prima vista, se si intende la repressione come “risposta del potere al montare delle lotte”, mai come oggi il potere se ne potrebbe stare tranquillo e mostrare il suo volto più pacioso e rassicurante.
Eppure soltanto oggi sono stati rispolverati strumenti della polizia fascista come i fogli di via, l’infiltrazione metodica delle formazioni politiche della sinistra (persino le più innocue e legalitarie), le sanzioni monetarie da migliaia di euro, oltre a misure relativamente nuove come il daspo urbano (lontano parente dei “confino”), tutti dispensati per via amministrativa dalla questure. E quand’anche si arriva a una condanna penale non si può non sottolinearne la sproporzione abnorme rispetto ai fatti contestati. I casi di Davide Rosci e diversi “imputati No Tav” sono ormai un paradigma…
Questa constatazione empirica comporta la presa d’atto che la repressione dipende dal rapporto di forza tra le classi, non tra “movimento” e forze dell’ordine. Ossia che la prima misura di contrasto alla “repressione” è il consenso di massa. E 40 anni fa, in effetti, questo era molto forte, ampio, determinato.
A una classe debole, senza rappresentanza politica e struttura organizzata adeguata, con infime capacità di far pesare i propri interessi, corrisponde invece una struttura repressiva strapotente, spesso agente al di fuori e contro i limiti posti dalla Costituzione (di cui peraltro pretende sempre più fermamente la “riforma”).
E’ nel rapporto di forza tra le classi che è andata scomparendo la mediazione politica e sociale. Che banalmente significa una quota di spesa pubblica destinata a welfare, sanità, previdenza, istruzione, in modo da limitare la conflittualità sociale (per ciò che eventualmente eccede quegli ambiti, ci sono pur sempre gli strumenti militar-polizieschi). E dunque anche diritto di parola, associazione, abigilità politica. Insomma, un reticolo di leggi che limitino l’arbitrio del potere economico e politico.
Le politiche di austerità hanno eliminato gran parte degli istituti della mediazione sociale, senza peraltro registrare una resistenza all’altezza dell’attacco. Del resto, molti di questi tagli hanno visto per anni il concorso attivo delle forze “di sinistra” presenti nei governi in posizioni ultra minoritarie e la complicità attiva dei sindacati della “triplice” (Cgil-Cisl-Uil). Quel tanto di protesta e resistenza è venuta da sindacati di base e gruppi politici, spesso più impegnati nel “piazzare cappello” su questa o quella scadenza che non seriamente miranti a costruire un fronte sociale in grado almeno di limitare i danni, nel breve e soprattutto nel lungo periodo.
Anche qui potrebbe sembrare che la debolezza della “soggettività politica antagonista e alternativa” sia tale da non giustificare particolari crudezze repressive. E invece accade esattamente il contrario.
Non è infatti l’alto livello della resistenza che spinge il potere a incrudire – sia sul piano giuridico che della “gestione di piazza” – le forme del controllo repressivo. E’, al contrario, la consapevolezza che è possibile oggi eliminare definitivamente qualsiasi forma di organizzazione politica indipendente che abbia un orizzonte di trasformazione sociale radicale.
Lo spazio democratico si va restringendo non per gli “eccessi degli estremisti” (che nemmeno esistono, nei fatti), ma per decisione strategica di un sistema di potere (europeo e multinazionale) che sa benissimo dove vuole arrivare e quanto quel punto sarà insopportabile per chi dovrà subirlo. E’ un potere che “si porta avanti con il lavoro” predisponendo strumenti giuridici, poteri amministrativi (di polizia) e instillando in ognuno una “cultura dell’impotenza” che rallenta al massimo grado qualsiasi processo di aggregazione.
In altri termini: nel 2017 il potere reprime l’antagonismo – qualsiasi sia la forma politica o sociale che assume – non per il “rischio” che oggi rappresenta, ma per esser certo che non esista affatto. Almeno per molti anni.
Sul piano pratico, dunque, è certamente necessario costruire le contromisure legali per tutelare gli attivisti che sono incappati e incapperanno nelle maglie della repressione. E’ certamente necessario stimolare la critica più serrata di quel che resta dell’intellettualità italiana ed europea. Ma questa è la parte più facile, il minimo sindacale, del lavoro da fare. E’ nel rapporto di forza tra le classi che maturerà – oppure no – la più efficace delle possibili “difese”.
- intervento al convegno di Eurostop a Bologna
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