Per dare un contributo al dibattito sul referendum catalano per la secessione, proponiamo un articolo che affronta la questione dal punto di vista economico e finanziario. Naturalmente le questioni e gli aspetti sono anche altri ma riteniamo che questo punto di vista sia stato troppo trascurato. Ed invece dà un senso alla vicenda e pone la UE in un ruolo centrale per dirimere la questione.
La vicenda della secessione catalana, se osserviamo gli eventi degli ultimi anni, fa parte sicuramente un processo di accelerazione di conflitti territoriali e politici che è un effetto diretto del crack globale del 2008. Il referendum scozzese, la Brexit, la stessa primavera araba si possono riassumere in questo tratto unitario di spiegazione. Poi ogni vicenda ha il proprio retroterra storico ma, fatto sta, che quando la grande finanza esplode la geopolitica ne risente.
Andando nello specifico catalano, è anche vero che autonomia territoriale a Barcellona, in un processo contemporaneo di governance delle regioni, e monarchia di Madrid si tengono molto male, sia dal punto di vista giuridico, del funzionamento e delle gerarchie dei poteri, sia degli obiettivi stessi dello stato centrale e delle autonomie locali. La crisi del 2008, con l’esplosione, in Spagna, della bolla immobiliare e di quella bancaria poco tempo dopo (e relativa disoccupazione record), ha minato questi rapporti già precari. Non è un caso che la crescita, politica ed elettorale, indipendentista coincida con questi fenomeni. Anche la ripresa successiva alla crisi, eloquente in termini di Pil e di lavoro (precario) prodotto, non è servita, almeno fino ad oggi, a chiudere la forbice, apertasi negli ultimi anni, tra stato centrale e Catalogna. Stiamo parlando di una regione che produce il 20% del Pil spagnolo, il 25% delle esportazioni, quindi con un buon equilibrio di conti esteri, e con un reddito procapite superiore al resto della Spagna. Se guardiamo questo grafico vediamo infatti che il reddito procapite catalano è sensibilmente vicino, rispetto a quello del resto della Spagna, alla media europea. Non c’è da stupirsi: già una regione che si sentiva, e lo era dal punto di vista economico, più europea delle altre del proprio paese -stiamo parlando della Slovenia– fece la secessione senza tante cerimonie (e, rispetto alla guerra civile jugoslava, un numero di morti molto minore).
E’ evidente che, dal punto di vista catalano, la Spagna è un qualcosa che tende a produrre relazioni sociali e reddito inferiori alla Catalogna. E qui l’analisi nel dettaglio della differenza tra investire in impresa in Catalogna e in Spagna chiarirebbe molto sul comportamento delle élite catalane. O sul fatto che, magari, una diversa legislazione sul reddito d’impresa, e sulle sue tassazioni, potrebbe essere giocato dal nuovo governo di Barcellona come incentivo allo sviluppo e all’attrazione di capitali. La parte business del progetto indipendentista, quello promosso dalla componente liberale di questo fronte, sembra prefigurare una sorta di Irlanda mediterranea, con maggior forza dello stato che la promuove e magari con capitali, visti gli investimenti a Barcellona, provenienti da fondi sovrani come quelli di Doha-Qatar (questi ultimi una certa attitudine a destabilizzare la politica ce l’hanno. Vedi primavere arabe). Quello che non è chiaro, ed è materiale esplosivo, è quale sistema bancario catalano potrebbe configurarsi. Ricordiamoci che, senza il riconoscimento della Bce, qualsiasi sistema bancario catalano potrebbe incontrare parecchie avventure e guardiamo questo grafico. Ecco il paragone tra andamento degli interessi sul bond catalano e quelli sul bond spagnolo in un grafico molto recente
Come si vede non c’è paragone, a favore del titolo emesso da Barcellona, tra il rendimento dei bond catalani e quelli spagnolo. Speculazione? Stato catalano che si indebita, perché gli interessi alti poi si pagano, per avere una massa monetaria utile per una nuova stagione politica? Investimento oculato? Costi ribassati per finanziare lo stato spagnolo con intervento Bce?
Nella risposta a queste domande vi sta anche la risposta su cosa avviene in quello che è il piano del comando, anche per la politica nelle società liberali: quello del movimento capitali. Già perchè la reazione di Rajoy, un grosso errore politico, non è solo il riflesso nervoso di uno stato che, nei momenti di crisi, pensa ancora in modo franchista e teme l’effetto centrifugo magari nei Paesi Baschi e in Galizia. E’ anche la reazione di qualcuno che, in Italia questo particolare è poco chiaro, ha visto sfilarsi nel 2012 il controllo di banche importanti -via Bce ma su direzione d’orchestra francese e soprattutto tedesca- e che poco potrebbe sopportare la secessione catalana. Anche perché, perdendo la quota di Pil catalano in una equa ripartizione dei debiti, il debito spagnolo andrebbe, dal 99% del Pil con un tasso di sviluppo decente (che produce pero’ lavoro precario), a quasi quota 130%. Insomma al livello italiano ma senza la maggiore regione produttiva. Si capisce che, dopo la perdita di sovranità su parte delle banche, la secessione sarebbe un grosso problema per un paese, come quello spagnolo, costretto a reinventarsi. E per un sistema bancario che, basta legge la stampa tedesca, è un grosso player per le imprese del paese di Angela Merkel.
Vista con la necessaria freddezza tutta questa vicenda pare sia una incompiuta che un elemento di crisi. Una incompiuta perchè, senza una strada precisa, sul piano dei rapporti con Ue e Bce, la Catalogna (che vuol entrare nella Ue e nel sistema euro), il rischio per Barcellona è quello delle convulsioni nel limbo. Magari con un bond catalano che, forza delle necessità di finanziamento, diventa preda della speculazione di tutto il mondo. Un elemento di crisi, invece, perché uno stallo tra Madrid e Barcellona, legato allo status futuro della Catalogna, può avere effetti tellurici in Europa ed essere importato nel continente. Il punto, come sempre in questi casi, sta in chi è più forte nei momenti difficili tra i due contendenti. L’Ue, leggendo a modo suo il diritto internazionale, stando ben attenta agli equilibri continentali, ha detto che non appoggerà l’indipendenza catalana. Durerà questa posizione? Certo, ci pare curioso che una regione possa provare una secessione senza avere agganci nel continente. Ma razionalità e politica, si sa, sono sempre separate e non è detto che a Barcellona abbiano fatto i conti giusti. Come appare curioso l’errore di far partire la repressione, soft ma evidente dove conta ovvero le telecamere di Rajoy, con gli indipendentisti indietro nei sondaggi a luglio e con un elettorato catalano che, nello stesso periodo, complessivamente voleva l’indipendenza al 34 per cento degli aventi diritto. Il consenso successivo pare, con le mosse di questi giorni, avercelo aggiunta la repressione di Rajoy e così la frittata è fatta e del domani non vi è certezza.
Nel frattempo una cosa sembra chiara: senza una visione chiara di quale modello economico promuovere, e quale sistema politico a supporto, a sinistra ci vuole la giusta cautela in questa vicenda.
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Eros Barone
Da un punto di vista comunista, la contraddizione che gli eventi della Catalogna pongono in luce è quella, da un lato, tra il diritto all’autodeterminazione dei popoli e, in particolare, il diritto all’autodeterminazione del popolo catalano e, dall’altro, la natura di classe del processo indipendentistico. Infatti, nessun processo politico e sociale è adiaforo alla lotta di classe, tantomeno quello che si è attivato in Catalogna. In questo senso, è un dato di fatto inoppugnabile che il progetto indipendentistico, pur avendo il sostegno di ampie masse di cittadini e di lavoratori, ha un’impronta schiettamente borghese – subito riconosciuta, con un fiuto di classe infallibile, che è invece assente nei settori della sinistra che simpatizzano acriticamente con tale progetto, dai ‘mass media’ borghesi (Corriere della Sera, la Repubblica, il Giornale ecc.) – e risponde agli interessi oggettivi della frazione dominante della borghesia catalana. Il progetto indipendentistico in parola tende così a mettere in moto, sotto lo sguardo formalmente equidistante ma sostanzialmente benevolo degli esponenti della oligarchia di Bruxelles e di Washington, un processo costituente che punta ad integrare la Catalogna nelle strutture imperialistiche dell’Unione europea e della NATO. Dal canto loro, le forze del nazionalismo castigliano rappresentano il progetto del regime monarchico del 1978, erede diretto della dittatura fascista e alleato organico dell’imperialismo euro-americano. Per quanto concerne le forze rappresentate dai nuovi socialdemocratici di Podemos, la prospettiva che tali forze perseguono è quella di una rigenerazione del capitalismo spagnolo e catalano, che non mette in discussione le basi del sistema (monarchia, UE e NATO).
La verità è che una vera proposta di referendum per l’autodeterminazione dei popoli non verrà mai presentata né dal governo spagnolo né da quello catalano. Entrambi i governi difendono la NATO, l’euro e l’Unione europea. Nessun governo difende la sovranità della Catalogna o dello Stato spagnolo. Nessuno di questi governi borghesi difende gli interessi della classe operaia e dei settori popolari. Tutte le strade portano, in questo momento, alla stessa destinazione: il capitalismo, la dittatura della borghesia e l’imperialismo. Ma una cosa è certa: la classe operaia non deve essere una pedina della scacchiera in cui si giocano i rapporti di forza tra “i fratelli massoni del capitale” ed i comunisti non devono lavorare per il re di Prussia.