Lo scacchiere politico in cui competono interessi e antagonismi di classe vive un’intensificazione dell’onnipresente conflitto interclassista, che muove e sviluppa le società e la loro storia.
La terminologia utilizzata riflette questa intensificazione delle contrazioni tra parti opposte. Sembra che, a Madrid, lo shock ci abbia preso in contropiede, e coloro che fino ad ora si sono definiti rivoluzionari, ciechi di fronte a ciò che il linguaggio ci rivela, carenti di una pratica rivoluzionaria coerente, hanno adottato una posizione reazionaria rispetto al movimento per la rottura in Catalogna. Per lo meno così è stato in molti più casi di quelli che ci piacerebbe riconoscere.
Speriamo che finiscano per spiegarci se questa reazione sia dovuta ad un internazionalismo equidistante, che sarebbe ingiusto e sbagliato perché non è possibile considerare tutti i conflitti nazionali attraverso un’unica e meccanicistica analisi nella quale non si tenga conto dello sviluppo storico o del contesto sociale di questa o quella nazione così come di altre condizioni soggettive specifiche, o se semplicemente ci troviamo di fronte ai figli bastardi di un matrimonio di convenienza tra la Direzione del Partito e la bandiera bicolore.
Vorranno convincerci che ciò che sta succedendo in Catalogna è un conflitto nazionale in cui la questione sociale è condizionata dalla questione nazionale, per ricordarci poi che ogni movimento e ogni lotta nazionalista si ritrova le èlites e la borghesia nazionali come attori principali del conflitto. Èlites che, in competizione per il controllo del mercato, fanno appello all’orgoglio patrio affinché “chi sta sotto” difenda i pretesi “interessi comuni” della nazione.
Senza dubbio dovremo riconoscere che chi sostiene ciò ha imparato molto bene la questione nazionale sui manuali.
Però, innanzitutto tornano ad inciampare sulla questione del dualismo tra fattori che fa dipendere una questione dall’altra senza tener conto che tanto il fattore sociale quanto il fattore nazionale fanno parte di un tutt’uno all’interno delle relazioni sociali che si sviluppa nell’attività pratica e nella costante e reciproca relazione. L’unica cosa che ottengono con questo dualismo è rimarcare la propria posizione per decidere quando passare o meno all’azione, in base ad una considerazione tutta idealista su quale movimento popolare sia più o meno sociale o più o meno nazionale.
Desta sospetto il rivoluzionario che in maniera assolutamente idealista decide di non stare dentro al movimento popolare per cercare di conferirgli un carattere rivoluzionario, e che si arrischia a lasciare nelle mani della borghesia la leadership di quel movimento, senza nemmeno considerare l’iniziativa e l’energia rivoluzionaria che lì dentro il popolo esprime.
Desta sospetto il rivoluzionario che di fronte all’azione delle masse si siede a guardare, nella speranza che le contraddizioni oggettive materiali determinino tutto…
Inoltre, voler applicare quest’analisi generale e “ortodossa” dei conflitti nazionali alla questione catalana significa semplificarla in maniera assurda e palesarsi come un completo ignorante rispetto alla realtà catalana.
È quanto meno paradossale che mentre la gran parte delle èlites catalane, capitanate dalla borghesia finanziaria – la più potente –, hanno ben compreso che la rivendicazione indipendentista contiene dentro di sé un discorso molto più ampio, che ha a che fare con la lettura politica che la maggioranza della popolazione catalana ha dato della crisi esplosa dieci anni fa, una parte importante della sinistra spagnola proceda in direzione contraria all’indipendentismo, accusandolo addirittura di seguire le mosse della sua borghesia!
Sarebbe opportuno ricordare a chi da Madrid esprima calorosamente il proprio appoggio o meno all’indipendentismo, che il diritto di autodeterminazione è stato ideato come formula politica per indebolire ed evitare il conflitto tra nazioni e farlo rimanere in un solco democratico, e di fatto si arrivò alla conclusione che per evitare una paralisi del conflitto dovrebbe essere il popolo della nazione che intenda autodeterminarsi l’unico con capacità di decidere ed esprimersi attraverso il voto. Una potestà che va al di là del consenso o delle preferenze di coloro che non fanno parte di quel popolo sovrano, di coloro che non conoscono o non stanno dentro quella precisa realtà, alla sua comunità materiale e spirituale, e nemmeno sto qui a dire che quel diritto a decisione è ben più determinante dei poteri e delle istituzioni, costituite da e per minoranze privilegiate.
Perché ricordarlo?
Innanzitutto, perché la verità solo si mostra nella pratica, e l’1 di ottobre le urne catalane si sono imposte di fronte alle menzogne e alla paura che volevano e vogliono tuttora delegittimarle.
Inoltre perché, nell’attuale contesto, l’azione non può aspettare la teoria, né venire pregiudicata dal freno della speculazione teorica. Fuori dalla Catalogna non possiamo continuare a nasconderci nel fango del dibattito territoriale e lasciar passare questa opportunità storica di rottura definitiva del contesto franchista, che perpetra la corruzione e gli abusi, sempre impuniti, nel Regno di Spagna.
Non possiamo ignorare che le masse popolari della Catalogna siano riuscite a imporre un soggetto collettivo come attore principale della scena politica, che si contrapponga allo status quo per la conquista di più diritti, più libertà, più democrazia, e ciò significa maggior protagonismo e maggiore capacità d’azione e sviluppo spirituale delle classi non privilegiate, specialmente della classe lavoratrice tutta.
Insisto, è scandaloso che la grande borghesia catalana, che ha già dispiegato tutto il suo potere dentro le istituzioni ed i mezzi di comunicazione per frenare il mandato democratico nato il primo ottobre, abbia compreso meglio della sinistra spagnola e dei suoi pseudo-rivoluzionari la natura della strada intrapresa dal popolo catalano!
La Repubblica Catalana non ci regalerà da un giorno all’altro la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, né la socializzazione dei mezzi di produzione, nemmeno cancellerà da un giorno all’altro i vizi, le ingiustizie e i crimini che il capitalismo crea continuamente, ma la sua realizzazione ci servirà da stimolo, affinché milioni di lavoratori e lavoratrici dell’Occidente, che vediamo soccombere da decenni ai diktat del libero mercato, passino all’azione.
La nuova repubblica, che nasce segnata dal sudore e dal sangue del suo popolo, che dimostra agli anestetizzati popoli dell’emisfero settentrionale che le masse – quando rimangano solide ed unite – possono decidere il proprio destino e imporre la propria volontà a chi governa, che punge come un sasso sotto la scarpa delle classi dominanti, ha conquistato il diritto ad imporsi come soggetto politico indipendente e, succeda quel che succeda, nessuno glielo potrà negare.
Oggi non c’è un solo rivoluzionario cosciente nel mondo che non sorrida pieno di speranza volgendo lo sguardo al popolo catalano. Il suo esempio pone di nuovo al centro del dibattito dinamiche di lotta che ci hanno fatto credere dimenticate e obsolete, secondo gli interessi delle classi dominanti. L’indipendenza in mano ai lavoratori e alle lavoratrici catalane costituisce un mezzo per porre in marcia un destino che va molto oltre la creazione di un nuovo stato.
Ai “democratici da sempre”, a quelli del cambiamento e della speranza posticipate, a quei rivoluzionari da manuale e a quei traditori del pattismo su commissione: quando giungerà l’ora tenete ben presente che “Roma non premia i traditori”.
*Prigioniero politico comunista spagnolo rinchiuso nel carcere di Navalcarnero
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Mario Galati
Sembra che i rivoluzionari Puigdemont e soci, pur anelando al nobile ideale con la determinazione degli oppressi, non della piccola e media borghesia agiata, non intendano affatto seguire l’esempio dell’autore dell’articolo. Né, tanto meno, temo, intendono farlo le masse oppresse catalane.