Confesso di essermi documentato poco sui referendum autonomisti del Lombardo-Veneto. Perché, lo confesso, non mi interessavano. Confesso anzi che fino a ieri li reputavo irrilevanti, nel bene e nel male, salvo chiedermi come avrebbe reagito l’elettorato cispadano e quanto l’iniziativa avrebbe danneggiato – e quanto giustificatamente – la credibilità delle aspirazioni nazionali dei suoi promotori. Fino a ieri, appunto. Poi ho ascoltato il commento di Roberto Maroni alla giornata elettorale e mi si è accesa una lampadina, anzi una sirena antiaerea:
… è un sistema perfetto. Quindi è il futuro. Abbiamo sperimentato il futuro per l’Italia, per il sistema di voto che potrà essere utilizzato in qualunque elezione e io chiederò, ho già annunciato e preannunciato al ministro Minniti, che già le prossime elezioni in regione Lombardia possano utilizzare questa procedura. Abbiamo garantito oggi che funziona in tanti seggi diversi e in tante modalità operative diverse e abbiamo dimostrato che è sicuro.
E ancora:
Abbiamo sperimentato un sistema di voto elettronico che potrà essere il futuro del sistema di voto in Italia. Ho sentito questa sera poco fa il ministro Minniti per dirgli di questo risultato a urne… no, a voting machine chiuse, preparerò per lui una relazione dettagliata che gli invierò nei prossimi giorni e gli chiederò che il nostro sistema sia utilizzato in futuro, magari già alle prossime elezioni politiche.
Il governatore parlava ovviamente del sistema di voto elettronico utilizzato nella consultazione lombarda. Confesso che anche di questo, come di tutto il resto, mi ero disinteressato. E ne ho colpa. Perché erano anni che aspettavo e temevo di ascoltare queste parole, immensamente più rilevanti e più gravi del piccolo episodio referendario che ne ha fornito l’occasione.
Per i suoi effetti sulle libertà fondamentali, l’imposizione del voto elettronico fa il paio con quella della moneta elettronica di cui abbiamo già parlato in questo blog. In entrambi i casi si tratta della centralizzazione di un potere diffuso – economico attraverso la moneta, politico attraverso il voto – che non a caso include i due poteri su cui si fonda la libertà civile dei singoli: di disporre dei propri patrimoni e di partecipare alle decisioni collettive opponendo la propria autonomia all’arbitrio di chi governa. La diffusione di questi poteri, cioè la misura in cui i cittadini possono rivendicarne liberamente l’esercizio e la titolarità, coincide con la sostanza stessa della democrazia. Vi sembra che si stia esagerando? Vediamo.
Nel recente caso lombardo l’opzione del voto elettronico è stata proposta con una modifica alla Legge 34 dai soliti cinquestelle, quelli che già votano tra di loro su un portale online privato, a codice chiuso e senza obbligo di rendicontazione, e approvata con il voto dei consiglieri di centrodestra. Secondo il capogruppo PD Enrico Brambilla si sarebbe trattato «con tutta evidenza» di una «merce di scambio tra i grillini e la maggioranza» per appoggiare il referendum dei colleghi leghisti. Data la sproporzione delle poste in gioco, è difficile per chi scrive non sospettare che l’obiettivo di alcuni possa essere stato quello – cioè esclusivamente quello – di sdoganare il nuovo sistema di voto, quale ne fosse il pretesto.
L’appalto lombardo per la fornitura e gestione dell’infrastruttura di voto era affidato alla multinazionale Smartmatic. Come funzionano i software di acquisizione, registrazione e trasmissione dei dati della Smartmatic? Attraverso quali algoritmi elaborano le preferenze dei votanti? Non si sa né si può sapere, perché il codice è chiuso e protetto da segreto industriale. Come possono i presidenti di seggio verificare che i risultati del report finale corrispondano ai voti espressi? Non possono, per lo stesso motivo. Esiste la possibilità di convalida a valle da parte di un pubblico ufficiale? No. Tutto ciò che accade all’interno delle macchine Smartmatic dipende solo da Smartmatic ed è verificabile solo da Smartmatic. Sicché il risultato elettorale è nelle mani di Smartmatic. Il governo popolare di milioni di elettori passa così nella camera blindata di un unico soggetto privato prima di essere riconsegnato al popolo. Se ciò non avvera necessariamente un sogno di onnipotenza e di controllo globale, ne soddisfa senz’altro tutte le condizioni. Non ci resta quindi che fidarci e chiederci, perlomeno, di chi ci stiamo fidando.
Partendo dalla segnalazione di un lettore apprendo che l’attuale presidente di Smartmatic, Mark Malloch Brown, figura oggi nel board della fondazione Open Society di George Soros avendo ricoperto in passato i ruoli di vice direttore dell’Open Society Institute e del fondo Quantum dello stesso Soros, nonché di vice presidente del Soros Fund Management e, nei primi anni ’90, di consigliere nel Soros Advisory Committee in Bosnia durante gli anni in servizio presso la ONG Refugees International. Nel 1995 fonda la ONG International Crisis Group grazie alle ingenti donazioni dell’Open Society Institute e dello stesso Soros.
Nella sua lunga carriera istituzionale Malloch Brown ha lavorato per l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), la Banca Mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), di cui era amministratore quando, nel 2004, il neopresidente georgiano Mikheil Saakašvili vi attinse un fondo cofinanziato da UNDP e da Open Society Institute per «sostenere le riforme» del governo scaturito dalla rivoluzione delle Rose in cui lo stesso Soros avrebbe investito non meno di 40 milioni di dollari. Per avvicinarsi alla sede di lavoro, un anno prima Brown si era trasferito con la famiglia in una villa di proprietà di George Soros a Katonah, nella contea di Westchester, diventando così anche vicino di casa del miliardario ungherese. All’apice del suo percorso politico, nel 2006 ha servito come segretario generale aggiunto alle Nazioni Unite sotto il mandato di Kofi Annan e, dal 2007 al 2009, come ministro degli Esteri nel governo inglese di Gordon Brown.
Giornalista di formazione, ha scritto per l’Economist e attraverso lo studio Sawyer-Miller di cui è socio è stato consulente di immagine nella campagna elettorale di Gonzalo Sánchez de Lozada in Bolivia, Mario Vargas Llosa in Perù e Corazón Aquino nelle Filippine. Nel 2012 dà alle stampe un libro che si racconta già nel titolo, The Unfinished Global Revolution: The Limits of Nations and The Pursuit of a New Politics, nella cui quarta di copertina leggiamo che
i governi nazionali non sono più attrezzati per affrontare problemi complessi come il cambiamento climatico e la povertà. Sempre più spesso, sopperiscono le ONG, la società civile e il settore privato.
Nel 2014 si scopre anche capitano d’industria. Conosce Antonio Mugica, giovane ingegnere venezuelano convinto che la e-democracy e «il voto online esploderanno nei prossimi anni» e fondatore negli anni ’90 della Smartmatic, azienda di servizi informatici alle pubbliche amministrazioni dagli assetti proprietari e finanziari quantomeno opachi, stando a quanto ricostruito in un cablogramma del 2004 pubblicato da Wikileaks. Brown ne diventa presidente.
Di fronte a tanto curriculum, è davvero singolare l’entusiasmo con cui un governatore del partito più sovranista d’Italia affida le sorti elettorali della sua regione, e chiede di affidare quelle della Nazione tutta, ai sistemi informatici dell’uomo forse più globalista del globo. E il Matteo Salvini che definisce l’infrastruttura di voto fornita dal vice e dirimpettaio di George Soros una «opportunità» che il Ministero dell’Interno dovrebbe offrire «anche per le elezioni della prossima primavera», è lo stesso Matteo Salvini che metterebbe «fuorilegge tutte le istituzioni finanziate anche con un solo euro da gente come Soros»?
Intendiamoci, Smartmatic non è finanziata da George Soros. E Malloch Brown vi si è insediato solo tre anni fa. Ma se si ignorano le liasons politiche più recenti dell’azienda, prima di entusiasmarsi se ne dovrebbero almeno considerare i precedenti, ad esempio che è poco gradita negli Stati Uniti già dal 2006 quando, dopo avere quasi mandato all’aria le elezioni amministrative di Chicago, è finita sotto i riflettori del Committee on Foreign Investment per i suoi legami poco chiari con il governo venezuelano e la difficoltà di stabilirne le quote di proprietà, disperse in una «elaborata rete di aziende offshore e trust stranieri». Nelle ultime presidenziali è bastata la notizia – falsa – che la società dell’ing. Mugica avrebbe fornito i suoi sistemi ad alcuni Stati per gettare nel panico l’opinione pubblica americana. Più recentemente è stata messa sotto inchiesta nelle Filippine per essere intervenuta senza autorizzazione sui voti già acquisiti. Ma è di questa estate il caso forse più grave di tutti, proprio sotto la presidenza di Brown e proprio in Venezuela, quando Mugica ritirò i suoi tecnici dal paese per poi annunciare alla stampa che i dati sull’affluenza alle elezioni della nuova assemblea costituente venezuelana di cui era appaltatore sarebbero stati manipolati. Con quella mossa, inspiegabile secondo logiche commerciali, tirava la volata ai nemici politici di Nicolás Maduro (qui Repubblica) che poterono così disconoscere i risultati della consultazione adducendo l’«autorità» dei tecnici.
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Checché si pensi della società Smartmatic e dei suoi vertici, è francamente inaudito che i processi elettorali di uno Stato sovrano siano affidati a un soggetto privato, straniero e per di più dall’azionariato poco o punto identificabile. Se le democrazie si governano attraverso le elezioni, la privatizzazione delle urne è una privatizzazione del governo. Come minimo, i software utilizzati dovrebbero essere di proprietà pubblica e a codice aperto, e i tecnici che li installano e ne verificano il buon funzionamento ufficiali pubblici o forze di polizia. Ma, anche così, la maggiore sicurezza del voto elettronico sarebbe garantita?
No, assolutamente no.
Perché il problema è di natura fisica, non tecnologica. I dati acquisiti da un dispositivo elettronico non sono visibili e la loro manipolazione non lascia traccia. Non c’è modo di sottoporre al vaglio empirico di un essere umano la corrispondenza tra l’input (il dito che tocca lo schermo di un tablet, o che preme un tasto) e l’output (il risultato restituito dalla macchina). A prescindere dalla tecnologia e dalla baroccaggine delle procedure di sicurezza adottate. L’unico sistema sicuro – cioè sicuro almeno tanto quanto i metodi tradizionali – sarebbe quello di stampare una ricevuta che i votanti verificano e depositano anonimamente in un’urna per il conteggio in contraddittorio degli scrutatori e il riconteggio in caso di contestazioni. Ma allora si ritornerebbe al vecchio sistema, sostituendosi semplicemente la stampante alla matita con qualche milionata di costi in più.
Il fatto è che nelle elezioni si è sempre brogliato, con qualsiasi sistema. Non potendosi garantire la fedeltà assoluta, l’obiettivo deve essere quello di rendere i brogli più difficili e dispendiosi. È qui che il voto elettronico fallisce miseramente e si trasforma in una minaccia per la democrazia. Perché da un lato accentra il controllo sui voti nelle mani dei pochi o dei singoli che programmano i dispositivi – laddove la carta richiederebbe la connivenza di squadre di scrutatori e osservatori – dall’altro offre l’opportunità di una manipolazione istantanea, automatica e senza traccia a chiunque si trovi nella stanza di controllo: un appaltatore venduto, un funzionario infedele, lo stesso governo in carica o una sinergia dei tre. Installando un software truccato su tutte le macchine di voto si otterrebbe senza costi l’equivalente di corrompere decine di migliaia di sezioni elettorali (per non dilungarci oltre sulla vulnerabilità sostanziale del voto elettronico rimandiamo i più tecnici a questo eccellente paper dell’Institute for Critical Infrastructure Technology).
In linea di principio non stupirebbe dunque se un così enorme potenziale di controllo attirasse l’attenzione di chi si è già dedicato con altri mezzi a condizionare le vicende elettorali degli Stati. Stupisce invece, e anzi rattrista, che lo strumento sia acclamato da chi può subirne gli abusi: gli elettori, i politici, i governi stessi.
Da un lato, l’ossessione della digitalizzazione riflette il desiderio di conformarsi a una narrazione politica che indica nel dovere di «innovarsi» tecnologicamente la filiale di un «progresso» rispetto al quale siamo sempre in ritardo, coltivando nelle masse un senso di difetto eterno e perciò una smania di abbracciare tutto ciò che si presenta loro nell’incarto lessicale della novità (le «riforme»). Il progresso dei progressisti è acefalo, non dichiara i traguardi a cui tende, ma in compenso è «inevitabile». Chi in questi giorni si chiede come sia possibile che si voti ancora come un secolo fa, dovrebbe anche chiedersi perché mangiamo ancora per vivere come centomila anni fa, o perché utilizziamo ancora muri e portoni, e non un più agile firewall, per proteggerci dalle incursioni dei ladri.
Ci sono cose che devono rimanere materiali perché… l’essere umano è materiale. Se fossimo un software potremmo infilarci nei tablet e rincorrere i pacchetti di dati per identificarli. Ma non lo siamo. Esistiamo in una dimensione fisica diversa dove si percepiscono la carta e i segni, non le cascate di impulsi a 5 volt. Sicché nella ubriacatura della dematerializzazione non si intravede solo il veicolo politico di un accentramento dei poteri, ma forse più a monte, e più gravemente, una patologia sociale. Vi si legge una hýbris di reazione, il sogno onnipotente di un’umanità schiacciata da uno sviluppo non più umano che si illude di disumanizzarsi per tenere il passo, che immagina di superare i suoi limiti diventando liquida e veloce per comprendere ciò che non riesce a comprendere e accettare ciò che non può accettare.
Perché in effetti la realtà fisica è l’ultimo ostacolo che si frappone tra il mondo promesso dalle teorie economiche e sociali in voga e la sua realizzazione. Sicché occorre negarla muovendo guerra ai suoi fenomeni: la geografia con le favole «no border», le distanze e gli oceani con la «globalizzazione», le culture locali con l’omologazione dei consumi e delle unioni politiche, le etnie con l’eugenetica del «meticciato», la biologia con le teorie «gender», i rapporti interpersonali con i social network, il bisogno di sicurezza e di identità con l’etica della precarietà e della migrazione perenne, la memoria di sé con il «cloud», gli averi personali con il «cashless», la storia con l’iconoclastia ecc. Muovendo insomma guerra a tutto ciò che, tracciando un limite, traccia il perimetro della nostra umanità, e quindi all’umanità stessa.
Oggi tocca – e non è certo poco – alla democrazia, ma la posta in gioco potrebbe essere ancora più alta.
* da http://ilpedante.org
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Fred
grandissimo pezzo! fortissimo!
Grazie!