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Bene.. bravi… No al 41bis

Dall’art. 90 al 41bis, la vocazione repressiva dello Stato liberal-borghese – comprendente arresti indiscriminati, carceri speciali, tortura, fino alle forme detentive più restrittive, che violano i diritti umani – ha sempre trovato il sostegno della “sinistra manettara”. A partire dal PCI anni ‘70 che, nel nome della “governabilità”, di un simulacro di “democrazia” sempre più elitaria e dell’accesso secondario al banchetto di Montecitorio, ha contribuito non soltanto a mandare in galera centinaia di compagni, non solo a distruggere il più grande movimento rivoluzionario all’interno dell’Occidente capitalista. E che consegnò proprio la classe operaia, i lavoratori in generale, alle peggiori rivincite del padronato, ma soprattutto all’affermazione di un giustizialismo sempre più forcaiolo, peronista e di destra. Quel giustizialismo di cui, oggi, in Italia, si fa corifeo culturale, tanto per intenderci, il Movimento 5 Stelle che – giusto a sinistra – sembra aver riempito vuoti ideali e politici incolmabili.

Perciò, nessuna sorpresa se, considerati i progressivi slittamenti legalitari della sinistra nel nostro paese – negli ultimi due decenni sempre meno garantista e sempre più permeata da una mentalità disciplinare cui culturalmente dovrebbe essere estranea, dal volto politico talmente trasfigurato da assomigliare a quello di un magistrato inquirente – se anche da alcuni settori di Potere al Popolo si sono levati malumori, con echi anche sui social, concentrati soprattutto contro il punto programmatico che prevede proprio l’abolizione del 41bis.

Comunisti, si dicono, giovani e meno giovani, che appaiono completamente condizionati dal terrorizzante clima “emergenziale”, corredato di leggi, decreti ed articoli di giornale redatti alla bisogna. Un clima creato in Italia a partire dalla seconda metà degli anni ’70 e sempre più consolidatosi tra la fine degli ’80 e l’inizio degli anni ’90, con l’avallo del Pci, prima, e dei suoi eredi, poi. Un clima che portò, l’allora ministro di Grazia e Giustizia, Oliviero Diliberto, ad istituire nel 1999 il GOM (Gruppo Operativo Mobile), un reparto speciale di polizia penitenziaria addetto al controllo dei detenuti in regime di 41bis e alla repressione dei disordini carcerari, e della cui violenza hanno fatto e fanno le spese molti compagni ancora in galera.

Or dunque, come forse sarà noto a chi legge questo giornale, ho già espresso, senza pregiudizi e speciose argomentazioni, alcuni miei dubbi sulla lista. Dico però, ancora, che se Potere al Popolo vuole effettivamente segnare uno spartiacque con i vecchi tatticismi politici di quella sinistra compatibilista divenuta la più fervente sacerdotessa della statolatria borghese, o la più servile vassalla del pensiero neoliberale – si pensi alle attuali derive coercitive, con uso indiscriminato di manganelli e fermo di polizia, in materia di controllo sociale e immigrazione, adottate dal Pd – e porsi come embrione di qualcosa di veramente rivoluzionario, allora deve necessariamente liberarsi della zavorra “riformista”, sul piano economico, e di quella legalitaria e forcaiola, sul versante della giustizia, e fare finalmente chiarezza, su questioni dirimenti, al suo interno.

La battaglia contro il 41bis, ad esempio, come quella per l’introduzione di un reato di tortura che non sia un capolavoro di incongruenza – specie in un momento in cui il Decreto Minniti e la repressione delle forze antagoniste costituiscono l’agenda politica di un governo impegnato attivamente nella cancellazione del dissenso: che si tratti di dicasteri in mano al Pd o al centro destra poco importa – rappresenta una battaglia culturale imprescindibile per il movimento comunista.

Una battaglia su cui non è concesso avere ambiguità. E non sono concessi neppure sofismi o astruserie giuridiche, che introducono “eccezioni temporanee” alla normale detenzione per una lunga quanto elastica serie di reati. Sappiamo, infatti, fin troppo bene, per esperienza pluridecennale, che simili provvedimenti, una volta emanati, vengono alla lunga estesi ad altre fattispecie e, quindi, a pagarne il prezzo sarebbero, in futuro, anche altri detenuti, specie quelli politici.

La mafia infatti, se la si vuol sconfiggere, va combattuta sui territori, attraverso lotte e interventi di carattere sociale, politico, economico e, appunto, culturale. Il ricorso al 41bis o a secoli di galera servono più a ripulire la coscienza di un apparato statale spesso complice, che non ad eliminare un fenomeno incistato in una struttura sociale che nessuno, a quanto pare, vuol modificare.

Per questo, accanto ai No all’Unione Europea, all’Euro, alla Nato e al pagamento del Debito, è per me irrinunciabile il No al 41bis. Come il No all’ergastolo. E, con essi, il superamento dell’istituto punitivo della pena, pensato come unico strumento di deterrenza del crimine o, peggio, come “metodo rieducativo”. In tal senso, difatti, le galere hanno fallito. E falliscono ancor di più le teorie che producono svolte restrittive e autoritarie.

D’altronde, come ho già scritto altrove, non dimentichiamo che secondo il filosofo e psicologo francese, Michel Foucault, tra la nascita del capitalismo e l’instaurazione del potere disciplinare esiste una causalità irriducibile e biunivoca: ciascuno dei due fenomeni ha alimentato l’altro e nessuno dei due avrebbe potuto mai assumere le proporzioni che ha assunto se non si fosse potuto poggiare sulle acquisizioni e sugli effetti dell’altro.

Scrive infatti Foucault, in “Sorvegliare e Punire”: «L’individuo è senza dubbio l’atomo fittizio di una rappresentazione “ideologica” della società, ma è anche una realtà fabbricata da quella tecnologia specifica del potere, che si chiama “la disciplina”. Bisogna smettere di descrivere sempre gli effetti del potere in termini negativi: il potere produce; produce il reale; produce campi di oggetti e rituali di verità. L’individuo e la conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione».

Stando, dunque, a quanto dice Foucault, il potere produce innanzitutto sovrastrutture, morali e culturali, codici di comportamento, simboli, linguaggio e, di conseguenza, senso. E quindi, se Il potere produce senso, com’è facile comprendere, determina la differenza – storica e culturale – tra il Bene e il Male, tra ciò che è legale e ciò che non lo è, tra lecito e illecito, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. In una parola, stabilisce e precisa l’ethos all’interno di una società e di un particolare momento storico.

Ne deriva che una delle principali peculiarità e finalità del potere – e specifichiamo che, quando Foucault parla del potere, si riferisce a quello dello stato borghese e liberale – risiede in ciò che egli definisce governamentalità, concetto che racchiude in sé quelli di sovranità e disciplina, affermatosi in Occidente proprio con la nascita del liberalismo e che, inequivocabilmente, conduce ad una gestione analitica, economica e disciplinare appunto delle masse.

Con l’avvento dello stato liberale, insomma, siamo entrati nell’era della biopolitica e del biopotere. E, come approfondiranno, poi, in senso più squisitamente marxiano Cesarano e Agamben, attraverso la biopolitica, il Capitale ha avuto accesso al più completo e complesso dominio del reale, giungendo a sottomettere tutta la vita fisica e sociale ai propri bisogni di valorizzazione e restringendo, così, le possibilità di resistenza e opposizione al sistema, attraverso quella che il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han definisce, ormai, una vera e propria “psicopolitica”.

Categoria orwelliana decisamente inquietante, per mezzo della quale, afferma Han, il potere non disciplina più i corpi ma plasma le menti, non costringe ma seduce, sicché non incontra resistenza perché ogni individuo ha interiorizzato come propri i bisogni del sistema. Non certo il desiderio rivoluzionario, per parafrasare Deleuze.

Pertanto, se si vuole continuare a definirsi marxisti, comunisti e rivoluzionari, è necessario rompere con quei paradigmi del pensiero borghese e cominciare a declinarne di nuovi. Ampliando gli orizzonti e spaziando liberi in essi.

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1 Commento


  • ZV

    Questo articolo è un minestrone confuso e annacquato di post-strutturalismo e movimentismo, raggiungendo l’assurdo quando tenta di spacciare Agamben e Foucault per fari del marxismo. Naturalmente non affronta nemmeno di striscio il problema strutturale delle carceri (che non c’entra nulla né con l’ergastolo né col 41 bis), ma ci butta dentro pure la questione del reato di tortura, giusto per chiudere la collezione di luoghi comuni. Il dibattito (chiamiamolo così) su 41bis ed ergastolo, al momento, serve solo a dimostrare l’arretratezza ideologica, la cecità politica e la totale incapacità di analisi della sinistra radicale, o di quello che ne resta. Ma data la confusione ideologica, non c’è da stupirsi della mancanza di progettualità.

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