I risultati delle elezioni italiane sono l’ulteriore dimostrazione del collasso, a livello europeo, del sistema politico tradizionale, basato sull’alternanza bipolare di centro-destra (PPE) e centro-sinistra (PSE). Forza Italia, interna al gruppo dei Popolari europei (PPE), è il quarto partito, il Pd, rappresentante del Partito socialista europeo (PSE), è secondo a pari merito con la Lega e scende al minimo storico.
Il risultato del Pd non è per nulla eccezionale rispetto a quanto fatto registrare dai partiti socialisti in Germania, Spagna e Francia (anzi, qui le cose sono andate peggio). Il punto è che la presunta e tanto sbandierata ripresa non è tale da recuperare quanto perso in 10 anni di crisi e di austerity europea e soprattutto è una crescita senza lavoro, o meglio senza lavoro adeguato a sopravvivere, fatta di aumento delle disuguaglianze.
Infatti, il tema implicito di queste elezioni è stato il lavoro, o meglio la mancanza di lavoro. Le elezioni sono state vinte da chi ha messo in campo una risposta – giudicata credibile dagli elettori – a questo problema e alla questione collegata, cioè come determinare una effettiva ripresa economica. In particolare tre proposte sono state portate all’attenzione degli elettori da Lega e M5S: la critica ai vincoli dei trattati Europei, la riduzione dei flussi di immigrazione, e soprattutto il reddito di cittadinanza, collegato quest’ultimo a un programma neokeynesiano. Insomma, proposte, per quanto alcune criticabili (reddito di cittadinanza) e del tutto controproducenti e fittizie (quella degli immigrati), su sviluppo e lavoro.
Infatti, da Roma in giù, cioè nella parte del Paese dove lavoro ce n’è poco o nulla (e sempre di meno mano a mano che si scende per lo stivale), il Movimento cinque stelle ha percentuali che arrivano a superare il 54% (Campania 1). La Lega invece è il primo partito della coalizione di destra e secondo in Italia quasi a pari merito con il Pd.
Possiamo dire che la vittoria e oltre il 50% dei voti sono andati a partiti definiti dai media come “euroscettici” e circa il 18% a un partito che ha ventilato persino l’uscita dall’euro, un tema che in teoria, secondo tanti a sinistra, avrebbe dovuto allontanare spaventati gli elettori.
A conclusione di un quadro epocale di allontanamento dell’elettorato dalla politica tradizionale e dalla politica tout court non dobbiamo dimenticarci, infine, che il numero dei votanti è diminuito rispetto alle elezioni precedenti ancora di 2,3 punti, superando il 27%, senza contare le schede bianche e annullate.
Per quanto riguarda Potere al popolo, il suo risultato è deludente, non bisogna nasconderselo. Ma era francamente improbabile che avremmo potuto raggiungere il 3%, date le condizioni di partenza. Prima ancora di ragionare su errori e limiti della lista, bisogna prendere atto della realtà preesistente alla nascita di Pap.
Lo spazio a sinistra e all’interno di larghissimi settori di classe è stabilmente occupato da altre forze e lo è da tempo. In primis dal M5S, che raccoglie una parte importante del nostro elettorato di riferimento, mentre un’altra parte continua a astenersi. Inoltre, per quanto possiamo rimuoverlo, la Lega formato nazionale è l’altra forza che occupa spazi importanti tra settori operai e proletari, ormai anche nelle ex zone rosse e, sebbene più limitatamente, persino a Roma (oltre 10%) e nel centro-sud. Insomma, dieci anni di erosione dei consensi e perdita di terreno non si risolvono in due mesi, così come è logico che in politica lo spazio che tu lasci libero viene necessariamente occupato da altri.
Arriviamo, quindi, ai limiti della lista. Molti sottolineano che abbiamo avuto poco tempo e che i media ci hanno oscurato. È giusto, ma è una giustificazione solo in parte, perché, per certi aspetti, specie il poco tempo è stata una nostra responsabilità. È bene ricordare le origini di Pap, non per autofustigarci, ma per capire.
Pap anziché essere un progetto pensato e messo in atto per tempo e con metodo, è stato la conseguenza del fallimento del Brancaccio, dietro al quale si è perso tempo prezioso, come ho avuto già modo di scrivere. Ai compagni di Je sò pazzo il merito di avere riempito tempestivamente il vuoto di proposta, quando il Brancaccio è fallito. Era però ormai molto tardi e si è fatto tutto di fretta. È chiaro che con più tempo si sarebbe potuto lavorare meglio, anche sul fronte mediatico.
Esiste però un altro problema che è importante affrontare soprattutto per il futuro, quello del profilo politico e della proposta, che non deriva solo dal poco tempo e dalla fretta, ma da questioni che da tempo lasciamo senza soluzione o con soluzioni vecchie e ormai datate. Il programma era un insieme di temi da una parte troppo ampio (con punti spesso insieme divisivi e francamente non essenziali nel duro confronto elettorale) e dall’altro poco concreto e generico.
La mia opinione è che concentrarsi su due o al massimo tre temi – lavoro, sviluppo economico e Europa, ad esempio – e su quelli sviscerare una proposta con una sua logica avrebbe aiutato. Questo è da tenere in conto per il futuro.
Ad esempio, sulla questione, sempre più centrale, dell’Europa bisogna definire una posizione finalmente più chiara, uscendo dal generico. Così come sul lavoro non basta essere contro Jobs act e Fornero. Né la soluzione alla mancanza del lavoro o alla sua precarietà può limitarsi alla redistribuzione, quando il vero nodo per la sinistra è sempre stato quello della produzione e quindi della creazione di posti di lavoro. Quello della definizione di una proposta economica radicale e credibile è un terreno su cui è necessario entrare e scontrarci con le proposte di M5S e Lega.
Insomma, in una competizione durissima dove il terreno era fortemente presidiato da altri, il profilo della lista era meno forte e definito di come molti di noi pensassero. Lo stesso linguaggio usato probabilmente non era quello più adatto. Se vogliamo costruire un linguaggio e un senso comune nuovo e più adatto alla realtà bisogna fare uno sforzo di ricerca e di innovazione ulteriore che, ad esempio, non mutui il solidarismo cattolico.
Forse è anche per questo che, come appare dai dati del voto e dell’astensionismo e dalle posizioni espresse pubblicamente da non pochissimi, è mancato non solo il consenso di settori di classe lavoratrice “più larghi”, ma anche quello di settori culturalmente e politicamente più vicini e affini. Insomma la lista non ha convinto neanche tutti gli elementi militanti o che ancora fanno riferimento all’area della sinistra radicale e comunista.
Rimane il fatto che Pap è stata la scelta giusta in termini di posizionamento politico, perché rappresenta la rottura rispetto a pratiche ormai anacronistiche. Il fatto che Pap sia giunto in ritardo e che rifletta i nostri limiti – ripeto: limiti storici e preesistenti a Pap – non significa che dobbiamo buttarlo via. Spiega il risultato.
Al contrario, la vera sfida di Pap inizia ora, e consiste nel lavoro di dargli un proprio e originale profilo programmatico e culturale adeguato a essere volano e sintesi di lotte sul piano politico. Ma per fare questo dobbiamo fare due cose: capire meglio la realtà, cosa che richiede una analisi economica e sociale adeguata ad una fase nuova, e derivare da questa comprensione scelte e orientamenti generali chiari e innovativi.
Il tempo c’è, anche in vista del prossimo appuntamento, quello delle elezioni europee. Il quadro che esce dalle elezioni è problematico, perché gli attuali assetti dell’Europa confliggono con il risultato delle elezioni. Dunque, le proposte di M5S e Lega saranno messe alla prova dei fatti. Sta a noi, quindi, saperci inserire in queste contraddizioni e questa volta non sprecare il tempo che abbiamo.
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