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Il segnale del disincanto

L’Italia sembra stretta nella morsa tra “antipolitica” e “populismo”, micidiale miscela che ha composto il propellente destinato alla formazione del governo in carica.

Ne è sortito un clima pesante, quasi di odio individualistico, di rifiuto degli altri e non solo dei “diversi”, quasi una fotografia di una società esausta e sfrangiata pronta ad abbandonarsi nell’idea della forza, magari esercitata in forme di vera e propria limitazione della democrazia.

Si è giunti a questo punto per via di varie e complesse ragioni che sono difficili da schematizzare in questa sede, a partire dalla conclusione del ciclo politico imperniato sul ruolo dei grandi partiti di massa avvenuta alla fine del XX secolo (caduta del muro di Berlino, trattato di Maastricht, “Tangentopoli”) e affrontata soltanto sul versante dell’autonomia del politico, modificando il sistema elettorale per forzare la formazione di un assetto bipolare, rivelatosi alla fine del tutto fallimentare.

Fondamentale importanza hanno avuto, naturalmente, i mutamenti epocali a livello d’innovazione tecnologica, globalizzazione economica, mutamento complessivo nel sistema delle comunicazioni con l’avvio del fenomeno strutturale della crisi dello “Stato-Nazione” e relativa cessione di sovranità, l’affermarsi di un concetto esasperato di personalizzazione della politica, l’affermarsi dell’idea di superamento delle ideologie in un quadro generale di accettazione del principio di “fine della storia”, di esportazione della democrazia “in armi”, di affermazione della “governabilità” quale fine ultimo ed esaustivo dell’agire politico.

Tutto ciò ha provocato, a livello sociale, il dimostrarsi egemonico dell’individualismo competitivo, dell’allentarsi dei legami di solidarietà sociale e di non riconoscibilità delle ragioni della classe, del mutarsi dei ceti sociali in massa indistinta attraversata dal consumismo fino al manifestarsi di una vera e propria “folla” non più distinguibile nei comportamenti e della cultura nei diversi ceti sociali.

Un appiattimento culturale verificatosi mentre crescevano esponenzialmente le disuguaglianze economiche.

In questo quadro, per tornare all’interno del “caso italiano” abbiamo avuto il progressivo deteriorarsi del sistema dei partiti, che via via hanno mutato la loro complessiva connotazione in partito “pigliatutti”, partito “azienda” fino al partito “personale”.

Nel frattempo cresceva il disimpegno, ben identificabile nel progressivo calo della partecipazione elettorale, ormai scesa a poco più del 70% degli aventi diritto nell’occasione delle elezioni legislative generali (tra il 1948 e il 1979 la partecipazione al voto, in Italia, si era mantenuta costantemente al di sopra del 90%, mantenendosi successivamente comunque oltre l’80%) calando ancora attorno al 50% se non al di sotto nelle altre occasioni, sia di tipo amministrativo, sia europeo, sia referendario.

Un fenomeno, quello della disaffezione al voto, colpevolmente sottovalutato nel corso del tempo anche da autorevoli politologi pronti ad analizzare il fenomeno come “semplice riallineamento al trend delle democrazie occidentali più mature”.

In questa occasione però la nostra attenzione è rivolta al ricordo di un dato particolare.

Ricorrono, infatti, in questi giorni i quarant’anni dallo svolgimento di due referendum: il primo riguardante l’abrogazione delle cosiddette “Leggi Reale” sull’ordine pubblico, il secondo relativo alla richiesta di abrogazione del referendum sul finanziamento pubblico dei partiti.

Le consultazioni referendarie si svolsero l’11-12 giugno 1978, proprio all’indomani dell’uccisione di Aldo Moro e alla vigilia dell’elezione di Sandro Pertini alla presidenza della Repubblica: era in carica un governo Andreotti, monocolore democristiano, sostenuto dalla cosiddetta maggioranza di “solidarietà nazionale” comprendente, oltre alla DC, anche PCI, PSI, PRI, PSDI e PLI. All’opposizione a destra il MSI, sull’altro versante il gruppo di Democrazia Proletaria (comprendente i gruppi a sinistra del PCI: PdUP, AO, MLS, Lotta Continua in quel momento in fase di ristrutturazione interna) e il Partito Radicale (presente a quel punto con 4 deputati) e promotore dell’iniziativa referendaria.

In questa sede ci occuperemo soltanto del referendum riguardante la richiesta d’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti.

L’esito di quella consultazione, infatti, rappresentò il primo forte segnale di disincanto collettivo: era l’avvio di una vera e propria svolta nel rapporto tra elettrici ed elettori e il sistema dei partiti (fino a quel momento assolutamente egemonico).

Un segnale non raccolto di una situazione che si sarebbe dimostrata irreversibile.

Andiamo, allora, per ordine:

Il finanziamento pubblico ai partiti è introdotto dalla legge del 2 maggio 1974 n. 195 (cosiddetta legge Piccoli) proposta da Flaminio Piccoli (DC).

 La norma viene approvata in soli 16 giorni con il consenso di tutti i partiti, ad eccezione del PLI (Radicali e Democrazia Proletaria non erano ancora presenti in Parlamento).

La legge imponeva l’obbligo di presentazione di un “bilancio” da pubblicare su un quotidiano e da comunicare al Presidente della Camera, che esercitava un controllo formale assistito da un ufficio di revisori, cioè il “Collegio di revisori ufficiali dei conti“. Infatti, essa da un lato introdusse il finanziamento per i gruppi parlamentari “per l’esercizio delle loro funzioni” e per “l’attività propedeutica dei relativi partiti“, obbligando il gruppo stesso a versare il 95% ai partiti, mentre dall’altro introdusse un finanziamento per l’attività “elettorale” dei partiti.

La legge disciplinava anche il finanziamento privato. La nuova normativa nasceva a seguito degli scandali Trabucchi del 1965 e Petroli del 1973: il Parlamento intendeva rassicurare l’opinione pubblica che, attraverso il sostentamento diretto dello Stato, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione e corruzione da parte dei grandi potentati economici. A bilanciare tale previsione, si introdusse il divieto – per i partiti – di percepire finanziamenti da strutture pubbliche ed un obbligo (penalmente sanzionato) di pubblicità e d’iscrizione a bilancio dei finanziamenti provenienti da privati, se superiori ad un certo ammontare.

I buoni propositi risultarono tuttavia smentiti dagli scandali affiorati successivamente (tra cui i casi Lockheed e Sindona). Nel settembre 1974 il PLI propose un referendum abrogativo sulla norma, ma non riuscì a raccogliere le firme necessarie.

Successivamente i radicali riuscirono, invece, nell’operazione e ottenuto il via libera dalla Corte di Cassazione si arrivò al referendum, fissato come si è già ricordato per l’11-12 giugno 1978.

 A quel punto si ebbe un risultato “anomalo” rispetto al quadro di partenza .

Nonostante l’invito a votare “no” da parte dei partiti che rappresentano il 97% dell’elettorato, il “si” raggiunge il 43,6%.

 Attenzione va posta, in questo senso, nel ricordare le proposte di legge che in materia sia i radicali, sia l’estrema sinistra, avevano presentato per affrontare il problema della sopravvivenza materiale dei partiti.

 Lo Stato, infatti, avrebbe dovuto favorire tutti i cittadini attraverso i servizi, le sedi, le tipografie, la carta a basso costo e quanto necessario per fare politica, non per garantire le strutture.

La stragrande maggioranza dei partiti, invece, voleva mantenere il sistema delle erogazioni in danaro, al fine precipuo di conservare gli apparati che, in quel momento, risultavano complessivamente di grandissima dimensione.

La proposta di superamento del sistema di finanziamento pubblico era quindi da considerarsi assolutamente coerente con una crescita e un incentivo alla partecipazione politica e non certo di tipo qualunquista.

Qualunquismo comunque sempre presente, in particolare nella storia della destra italiana e poi via via alimentatosi con le mancate risposte ai temi che pur attraverso il referendum si era cercato di sollevare.

Analizziamo allora l’esito referendario ricordando un elemento di valutazione preventivo di grande importanza.

Ci si trovava, all’epoca, al culmine dell’egemonia del sistema dei partiti nei confronti della società.

L’esito delle elezioni del 20 giugno 1976 aveva rappresentato l’apice del rapporto tra partiti e società in Italia.

I tre maggiori partiti, DC, PCI, PSI – organizzati nella struttura ad “integrazione di massa” – avevano raccolto, il 20 giugno 1976, complessivamente 30.364. 478 voti su 40.426.658 aventi diritto iscritti nelle liste per una percentuale del 75,11% (i voti validi furono 36.757.658: la percentuale dei tre partiti di massa, in questo caso, saliva all’82,60%. Si può scrivere davvero di una “organicità” del sistema di stampo gramsciano).

In breve tempo questo patrimonio fu disperso dall’impossibilità di imprimere al sistema una dinamica apprezzabile (imperante la duplice variante dell’arco costituzionale e della conventio ad excludendum quali fattori di vicendevole elisione).

Due anni dopo, trascorsi in gran parte all’interno della formula del “governo delle astensioni” e consumata come già ricordato la tragedia Moro, l’invito dei grandi partiti a respingere il progetto di abolizione del finanziamento pubblico che li riguardava direttamente fu raccolto da 17.663.301 elettrici ed elettori (da tener conto che l’arco della solidarietà nazionale comprendeva, raccolti attorno al “NO” nel referendum anche repubblicani e socialdemocratici che, complessiva con liste separate, avevano ottenuto al 20 giugno ’76 2.375.038 suffragi). Quindi la base di partenza del “NO”, teoricamente, rispetto ai dati del 20 giugno 1976, sarebbe stata di 32.739.518 ( sotto questo aspetto al blocco dei partiti che intendeva sostenere il mantenimento del finanziamento pubblico mancarono oltre 16 milioni di voti).

Il SI all’abrogazione ebbe 13.736.577 consensi. Complessivamente i voti validi al referendum dell’11 giugno 1978 furono 31.399. 878 con un calo rispetto alle elezioni politiche di 5.357.780 unità.

Da notare ancora analizzando l’esito referendario dell’11 giugno 1978 la differenza nel voto tra il Nord e il Sud, un dato che poi si sarebbe ripetuto nel tempo fino a suffragare, il 4 marzo 2018, la vittoria dei rappresentanti autodefinitisi portatori della cosiddetta “antipolitica”.

Il voto dell’11 giugno 1978, suddiviso per aree geografiche, aveva infatti visto al Nord il prevalere del NO per il 60,12%, al Centro per il 59,05%. Al Sud e nelle Isole invece era risultato maggioritario il SI rispettivamente con il 51,65% e il 54,89%.

 Ricordando ancora come all’epoca la caratterizzazione partitica delle indicazioni elettorali fosse risultata, molto forte (anche se già il referendum sul divorzio aveva fornito indicazioni contrastanti, in specifico sul versante cattolico) emersero allora dati ben precisi nel delineare un quadro di tendenza che non fu analizzato a dovere, per un lungo periodo, e che pure oggi –a 40 anni di distanza – sta a dimostrare come lo sviluppo del sistema politico italiano procedesse in una determinata, precisa, direzione corrispondente in larga misura allo stato delle cose attualmente in atto.

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