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Non vogliamo un paese che pensa solo ai ricchi. Pari diritti, pari dignità

Il prossimo 15 febbraio il presidente del consiglio Conte incontrerà i governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna per fissare le tappe che porteranno alcune regioni del nord del paese a iniziare un percorso di autonomia differenziata.

Con la riforma del titolo V e con la legge costituzionale n.3 del 2001, approvata in Parlamento con una manciata di voti di maggioranza e successivamente sottoposta a referendum popolare al quale partecipò appena il 34% degli aventi diritto, si è dato avvio ad una nuova forma di regionalismo che aveva la finalità di trasferire alle Regioni alcuni poteri e competenze proprie degli Stati, compresi quelli Federali.

Mentre il patto sancito nella Carta Costituzionale prevedeva una perequazione nella distribuzione delle risorse, proprio per evitare che ci fossero cittadini di serie A e cittadini di serie B, di fatto la forbice della disuguaglianza tra nord e sud si è allargata sempre di più, soprattutto dopo la crisi del 2008. A titolo di esempio, nella sola Regione Campania si sono persi dal 2008 ad oggi più di 1 milioni di posti di lavoro mentre l’emigrazione dei campani verso nord ha toccato le 500.000 unità. Al contrario, nelle regioni che oggi chiedono l’autonomia differenziata, i livelli di crescita e di occupazione sono tornati quelli pre-crisi, agganciando di fatto questi territori agli standard centro europei e lasciando crescere l’impoverimento delle regioni meridionali.

Oggi con la sigla degli accordi prevista per il prossimo il 15 febbraio si chiude un percorso che in questo paese dura almeno dagli anni 90, guidato dalla Lega Nord, ma che ha visto complici tutte le forze che hanno governato in questi anni.

Lo stesso accordo che il Governo Conte firmerà a metà febbraio è infatti la pura conferma di quello che il 28 febbraio dello scorso anno aveva siglato il Governo Gentiloni, a soli quattro giorni dalle elezioni Anche l’adesione al percorso da parte dell’Emilia-Romagna, a guida Partito Democratico, è la conferma di una intesa trasversale sul federalismo aumentato, o la secessione dei ricchi come è stata giustamente definita di recente.

Siamo di fronte ad un avvenimento che cambierà profondamente l’ordinamento giuridico-amministrativo del paese.  Non è che in questi anni l’Italia abbia brillato per l’equità sulla redistribuzione delle ricchezze all’interno del sistema paese o che la questione meridionale sia stata affrontata con le dovute misure, ma la chiusura del cerchio ormai sancisce la costituzione di aree del paese in cui gli standard di vita e dei servizi devono essere implementati anche a scapito delle aree più povere.

Il punto nodale dell’accordo sono le competenze di materia concorrente, elencate all’interno dell’art.117 della Costituzione, per le quali le regioni che stanno avviando il processo di regionalismo differenziato chiedono la titolarità. Tra queste materie ci sono settori centrali quali l’ambiente, la sanità e la scuola. Ci potremmo trovare nei prossimi anni, come già sta avvenendo grazie alla riforma Gelmini per l’Università, con scuole di serie A nel nord e scuole di serie B nel sud, con docenti che vengono pagati meglio nelle zone di maggiore benessere, rispetto ai colleghi che operano in condizioni peggiori a cui lo Stato dovrebbe invece prestare maggiore attenzione soprattutto in termini di risorse.

Questo processo non farà che incentivare una nuova immigrazione interna della forza lavoro, specialmente quella altamente qualificata, verso le regioni più ricche che garantiscono maggiori salari e migliori standard di vita.

Lo SVIMEZ ha calcolato che solo nel decennio 2008-2018 dal sud sono partiti verso il nord circa 200.000 neo laureati, con un costo in termini di diritto allo studio per le regioni meridionali di circa 50 miliardi di euro. Queste analisi sfatano il mito che vorrebbe il Mezzogiorno come un peso sulle “locomotive economiche settentrionali”. Se poi si calcola che i prodotti delle industrie del nord finiscono quasi esclusivamente nel mercato meridionale si ha la dimensione di come l’Italia abbia una vera e propria impostazione da colonialismo interno. Con una forza lavoro altamente qualificata che praticamente a costo zero si muove verso le regioni più ricche e nelle regioni più povere un mercato di beni e servizi che provengono dalle industrie del nord (7 prodotti su 10 che acquistano i meridionali vengono da aziende con sede legale al nord)

In questo quadro è chiaro che la rivendicazione di trattenere i 50 miliardi di euro di residuo fiscale da parte di Lombardia e Veneto suona come un ulteriore scippo dalle tasche dei più deboli verso quelle dei più ricchi. Questa narrazione che le regioni ricche versano più imposte allo Stato centrale, rispetto al ritorno che hanno in termini di finanziamento ai servizi al cittadino, è stata molto spinta dalla Lega e dalla stampa nazionale non trovando nessuna opposizione presso le altre forze politiche. Siamo di fronte ad una grande menzogna. Non sono certo le Regioni a contribuire alla fiscalità generale, perché la tassazione nel nostro paese è su base individuale.

Chi ha di più dovrebbe pagare di più, a prescindere dal fatto che viva a Milano o a Catania, e di conseguenza a prescindere dal luogo in cui risiede dovrebbe avere la stessa qualità di servizi pubblici. Né i Livelli Essenziali delle Prestazioni né il Fondo Perequativo, previsti entrambi dagli articoli 117 e 119 della Costituzione, così come riformata nel 2001, sono stati mai realizzati, consentendo che andasse avanti un regionalismo fortemente sbilanciato a favore delle zone ricche del paese. Con l’introduzione del regionalismo differenziato ci troveremo di fronte ad un ulteriore salto di qualità in questa direzione. Se le 3 regioni che producono il 40% del Pil nazionale, scelgono un processo di secessione “concordato” si aprirà una nuova stagione di tagli ai servizi e di emigrazioni dalle regioni povere a quelle ricche, anche con il meccanismo della emigrazione coatta prevista dal recente decreto sul reddito.

E’ chiaro che questo processo non potrà che peggiorare le già fortissime disuguaglianze sociali che esistono nel paese, tra una fascia di ricchi che ha visto accrescere la propria quota di ricchezze ed un ventaglio sempre più ampia di popolazione costretta in condizioni di povertà relativa o assoluta. I tagli ai servizi pubblici e le privatizzazioni, la precarizzazione del lavoro e il contenimento dei salari hanno attraversato in questi anni tutto il paese, ispirati dalle politiche neoliberiste di Bruxelles. La coperta quindi si è ristretta per tutti, ma il federalismo aumentato non potrà che accrescere queste disparità, aggiungendo a quella sociale anche una disparità tra regioni e tra zone ricche e zone povere della stessa regione.

L’accordo sottoscritto dal ex governo targato PD a peggiorare il quadro prevedeva che la definizione dei ruoli e delle procedure, su come si dovesse intraprendere il regionalismo differenziato, fosse affidato ad una commissione tecnica. Il Parlamento non ha nessun potere di entrare nel merito dell’accordo ma al massimo può ratificare o meno l’intero pacchetto dell’accordo sul regionalismo; una volta aperta la procedura ci saranno 10 anni in cui non sarà più possibile per il Parlamento mettere in discussione i Patti senza l’assenso delle regioni stesse.

Per questo è importante agire e farlo subito, prima che sia troppo tardi. Il silenzio su questa vicenda è diventato assordante, mentre siamo in presenza di un cambiamento che avrà effetti devastanti sul nostro futuro.

L’Unione Sindacale di Base ha deciso pertanto di lanciare una mobilitazione di protesta a Roma in piazza Montecitorio il prossimo 15 febbraio per fermare questo processo e riaprire la discussione. Tutti devono avere pari diritti e pari dignità, tutti abbiamo diritto allo stesso livello dei servizi pubblici, delle scuole, degli ospedali, dei trasporti. Abbiamo bisogno, soprattutto nelle regioni meridionali, di rilanciare l’occupazione, sviluppare la pubblica amministrazione e lanciare un piano straordinario di realizzazione di infrastrutture economiche e sociali indispensabili per il nostro futuro. Vogliamo una fiscalità progressiva e perequativa, vogliamo più giustizia sociale ed un piano vero di lotta alle disuguaglianze sociali.

Piazza di Montecitorio Roma – Venerdì 15 febbraio ore 11.30

UNIONE SINDACALE DI BASE

 

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