La lunga serie di interventi che abbiamo potuto seguire all’assemblea di domenica a Napoli (vedi il video che riporta tutta discussione), non è stato solo uno spaccato delle realtà che agiscono materialmente e politicamente su un corpo sociale impoverito ed a rischio esclusione, ma ha visto emergere come esigenza “politica” quella di dare una espressione e una piattaforma comune alle lotte e alle esigenze sociali.
Dall’introduzione che ha segnalato “il paese spaccato socialmente in due restituitoci dalle elezioni del 4 marzo” alla presa d’atto che spesso “ci sono le condizioni per il conflitto sociale ma mancano gli strumenti”, tutti gli interventi hanno messo messo a confronto sia le multiformi esperienze concrete di intervento/conflitto – da quello sindacale a quello solidale/mutualistico – sia l’urgenza di dare a questo mosaico del disagio – in particolare nelle periferie in cui vivono almeno 14 milioni di persone – una sintesi possibile che dia corpo al riscatto sociale.
Riguardando gli appunti diventa difficile resocontare una discussione molto interessante e molto concreta con i contributi di realtà come Napoli, Livorno, Abruzzo, Bologna, Caserta, Catania, Torino, Roma, Milano. Il suggerimento che ci sentiamo di fare è quello di sentirsi gli interventi.
Situazioni metropolitane di periferia o esperienze sul campo come le Bsa, reti di solidarietà popolare e sportelli dell’Asia-Usb, hanno disegnato una analisi sociale del paese che ha lasciato fuori pochi fattori – dall’assenza di una politica pubblica sulla questione abitativa a quella del reddito per disoccupati, precari, esclusi dal mondo del lavoro “regolare”, dallo smantellamento dello stato sociale al boom dei working poors dai territori devastati che accentuano la spaccatura anche geoeconomica del paese alle misure repressive (vedi Minniti) per criminalizzare la marginalità.
Lo sforzo messo in campo dalla Federazione del Sociale della Usb con l’assemblea di Napoli, vero e proprio esperimento di una terza gamba del sindacato dedicata al lavoro disperso e alle vertenze sociali da affiancare a quelle sui posti di lavoro, è quello di aprire un confronto su una possibile piattaforma comune che dia forza e sistematicità al riscatto sociale di una quota crescente di popolazione stritolata dagli effetti della crisi ma soprattutto dai provvedimenti concreti – e apertamente antisociali – ispirati dalle istituzioni europee e dalle scelte dei governi.
Il rischio di un racconto sulle vertenze e le attività svolte da ogni realtà di lotta, è stato rimosso dall’intervento di un compagno abruzzese che ha messo i piedi nel piatto: “Bisogna alzare l’asticella e non rimanere legati alle sole vertenze territoriali”, “Non bastano le buone analisi ma anche cosa mettono in campo i movimenti sociali per non lasciare le soluzioni solo alla politica istituzionale”. Dunque una piattaforma comune e cominciare ad incalzare il nuovo governo e il parlamento sulle questioni sociali spesso declamate in campagna elettorale ma subito liquidate dentro le “compatibilità europee o di bilancio.
Ma c’è un altro aspetto intuibile in alcuni interventi, evocato più come conseguenza già agente che come elemento di analisi. Si assiste ormai ad una sorta di colonialismo interno in cui vengono sempre più trascinati i territori non adeguati alla centralizzazione intorno ai poli strategici dentro i vari paesi e a livello europeo. Non solo sul piano della ripartizione della spesa pubblica – che oggi viene stornata, usata e concentrata sugli asset strategici del capitale e non sulla coesione sociale del paese – ma anche i territori vengono devastati e piegati alla concentrazione delle risorse lì dove le richiede il grande capitale. L’esempio del gasdotto che attraversa la dorsale appenninica dalla Puglia verso nord per fare dell’Italia l’hub del gas per l’industria tedesca o delle trivellazioni petrolifere in Basilicata funzionali non alle esigenze energetiche del paese ma per il mercato internazionale, sembrano riportare indietro la ruota della storia all’Ottocento e alla accumulazione primitiva in funzione dello sviluppo industriale del Norda discapito del Meridione, un Meridione oggi assai più ampio e che include ormai aree dell’Italia centrale e finanche la Capitale.
Le classi dominanti agiscono con priorità e obiettivi definiti, anche in modo brutale. I segmenti sociali che non sono funzionali o non si piegano, vengono via via marginalizzati e nascosti, lontano dai centri e in periferie sempre più lontane e allucinanti.
Nasce da questo la proposta di una mobilitazione nazionale dei movimenti sociali sotto il Parlamento che venga insediato o meno il nuovo governo. Si fa una data quella del 13 giugno anche se consapevoli che sarà un giorno infrasettimanale. Dall’assemblea è stato discusso e approvato un appello da far circolare e su cui confrontarsi con tutte le realtà che in qualche modo intendono dare rilevanza politica al disagio sociale, e forse proprio per questo sembrano essere l’obiettivo delle preoccupazioni del Capo della polizia Gabrielli nel suo contributo ai lavori della Commissione parlamentare sulle periferie che qualche mese ha concluso i suoi lavori, paradossalmente ma non troppo, manifestando più attenzione ai problemi della sicurezza che a quelli della sicurezza sociale per milioni di poveri e impoveriti, proletarizzati che vivono nelle periferie metropolitane e sociali del paese.
Serve dunque una piattaforma comune per ridare protagonismo e priorità nell’agenda politica alle esigenze popolari in tutti i loro aspetti. E l’idea del riscatto sociale, se si darà le gambe per agire, può diventarne il collante.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa