Il contesto in cui è maturata la manifestazione del 23 marzo è indubbiamente quello di una estesa vertenzialità che, dalla Sicilia alle Alpi, riguarda principalmente due aspetti: l’uso del territorio (dal settore infrastrutture a quello dell’energia, dagli insediamenti militari al tema dei rifiuti) e gli investimenti economici. Il contrasto alle grandi opere inutili, cui è intitolata la manifestazione (quasi un’unica grande vertenza), rappresenta dunque la sintesi di un percorso di discussione che dovrebbe riguardare nella sua interezza la politica degli investimenti pubblici nel nostro paese. Ma è davvero così, oppure nell’appello finale permangono delle zone d’ombra non sufficientemente indagate nel dibattito collettivo?
Intanto c’è da osservare che la specificazione inutili relativa alle grandi opere, lascia intendere che possano essere individuate altre opere utili che, almeno in via di principio, andrebbero prese in considerazione. Ma l’allusione che sottende l’interrogativo (quali opere potrebbero risultare utili?) resta senza risposta.
Quanto al fatto che il contrasto alle grandi opere inutili sia omogeneamente rappresentativo delle contraddizioni esistenti nel nostro paese in tema di politica degli investimenti, c’è molto da dire.
Le grandi opere attualmente più discusse valgono, all’incirca, 24 miliardi di euro, di cui 16 da spendere nelle regioni del Nord, 5 nel Centro e poco più di 3 nel Sud.
Nell’ipotesi che si riesca a bloccarle, come del resto è negli scopi della manifestazione, che fine faranno questi soldi? Non può certo sfuggire a nessuno che l’opinione comune della attuale classe politica di opposizione e di governo, è quella di ritenere che i denari di cui sopra debbano comunque essere destinati ad altri investimenti da realizzare nelle stesse regioni dove erano previste le grandi opere. Se il TAV non si farà, ad esempio, i soldi andranno nella metropolitana di Torino e/o in altre opere da fare in Piemonte.
Si è in pratica affermato un diritto di “prelazione regionale” su dei finanziamenti pubblici destinati ad opere classificate di interesse generale, senza alcuna formalizzazione giuridica o legislativa e siccome il 70% di questi investimenti era allocato al Nord, al Nord deve restare! Si dirà che questa è la politica delle “compensazioni”, che pur di non inimicarsi una parte dell’opinione pubblica locale o di qualche potentato economico, ricorre ad uno scambio di favori tra le diverse fazioni politiche. Ma come la mettiamo tra “noi antagonisti”? La risposta conseguente, in omaggio al tema della giustizia sociale a cui si ispira l’appello, sarebbe quella di sostenere che oggi l’unica grande opera utile è quella da fare per il Meridione, per quanto retorica possa apparire questa conclusione. E le motivazioni non mancano.
Il ragionamento per cui le catastrofi non colpiscono tutti nella stessa maniera, dato che chi sta in basso ne paga i costi maggiori, è ancora più gravido di conseguenze in una situazione territorialmente squilibrata come quella italiana, che peraltro è destinata ad aggravarsi con il progetto di autonomia differenziata per le regioni del Nord. Agitare il tema della giustizia sociale senza tener conto di questo squilibrio è fuorviante, perché pone la questione dell’uso del territorio su basi idealistiche ed emotive (la devastazione, i cambiamenti climatici), prescindendo da qualsiasi analisi economica che sovrintende questi processi.
Il capitale investe di più nelle aree del mondo già ricche e assai meno in quelle povere, perché così funziona il meccanismo di accumulazione, e se la nostra critica al ”modello di sviluppo” si traduce – nella fattispecie – nella sola richiesta di bloccare le grandi opere sapendo che gli investimenti corrispondenti resteranno al Nord, non facciamo altro che ratificare il divario esistente, sia che si valuti la cosa in termini socio-economici (reddito, tenore di vita, infrastrutture), sia in termini socio-ambientali (inquinamento, salute): basta confrontare le indagini epidemiologiche fatte a Genova Sestri con quelle del rione Tamburi di Taranto per capire che gli effetti complessivi di questo modello di sviluppo (nel caso specifico rappresentato dall’ILVA) non sono gli stessi tra Nord e Sud.
Analogamente la “transizione ecologica” e la “giustizia climatica” rischiano di essere argomenti da “ricchi” fatti per i ricchi, se non si tiene conto del gap strutturale Nord-Sud e delle tendenze in atto che lo stanno acuendo, sia che ci si riferisca all’intero pianeta o solamente al nostro paese.
Diceva Julius Nierere tanti anni fa che “Il principio secondo cui più ci si innalza e meno si incontra resistenza, non vale solo per gli aerei, ma anche per gli Stati. Nel terzo mondo molti degli ostacoli da superare nella lotta contro la povertà, fanno parte del sistema internazionale di produzione e di scambio in base al quale siamo obbligati ad agire come se fossimo eguali ai paesi industrializzati. Secondo questa logica noi dovremmo costruire la nostra economia in una condizione in cui i prezzi delle materie prime che esportiamo è determinato dai nostri clienti e quello dei manufatti che importiamo è fissato dai nostri fornitori che sono, più o meno, le stesse persone.”
Ma per restare al nostro paese: nel settore dell’energia, per esempio, che è parte essenziale della questione ecologica, la transizione energetica in corso ha beneficiato largamente le regioni del Nord Italia, e pochissimo quelle del Sud. Lombardia e Veneto da sole consumano un terzo dell’energia elettrica nazionale, ma ne producono meno di un quarto. Attualmente il Veneto produce meno energia di quanta ne produceva nel 1997, ma consuma il 28% in più rispetto allo stesso anno. Viceversa regioni come la Puglia e la Calabria, negli ultimi quindici anni, sono diventate aeree privilegiate per la produzione di energia solare ed eolica al punto che oggi esportano oltre l’80% dell’energia che producono. Stessa situazione per il gas, dove il solo comparto industriale-elettrico (escluso quindi il settore domestico) vede Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna consumare il 50% del totale nazionale rispetto al 19% di tutto il Sud. Con la prospettiva di invertire i flussi di importazione (dal Nord Europa al Sud Est mediterraneo) attraverso la costruzione dei gasdotti Tap ed EastMed, il Nord industriale avrà il vantaggio di ridurre il prezzo del gas, mentre al Sud resterà l’obbligo di servitù ( anche in senso giuridico) senza benefici alcuni.
Sul fronte politico non si può dire che l’attuale classe dirigente intenda rimediare a questi scompensi. Tutt’altro, visto che, oltre a procedere speditamente verso la devastante opera di selezione sociale costituita dall’autonomia differenziata per le regioni del Nord, già nel documento di programmazione economica il governo in carica prevede, ad esempio, di dare un contributo di 5 milioni di euro per l’elettrificazione della ferrovia Biella-Novara (lunga 51 Km), mentre non c’è nemmeno un cenno alle ferrovie del Sud (Jonica, Appo-Lucana e della Calabria) che assommano ad oltre 800 Km, tutti non elettrificati. Ancora: si danno 20 milioni di finanziamento alla Provincia di Matera in quanto capitale della cultura europea per l’anno in corso, ma se ne danno 30 alla provincia di Parma in quanto capitale della cultura italiana per l’anno 2020, come se fra le due province quella più “bisognosa” fosse Parma che ha un reddito medio doppio di quello di Matera.
Perciò quando nell’appello contro le grandi opere inutili si critica il governo in carica per non voler cambiare quello che c’è da cambiare, si prende una svista perché cambiamenti ce ne sono, e in peggio. Ma quando poi si attribuisce al governo “una imbarazzante retromarcia su tutte le altre grandi opere”, allora si commette un “falso ideologico”, perché non è il governo in quanto tale ad aver compiuto una retromarcia, ma il Movimento 5 stelle: e questo non si è voluto dire.
Una chiamata generale sulle grandi opere che non tenga conto delle diseguaglianze territoriali esistenti e non dica nulla sui progetti di legge in corso che tendono ad esasperarle, non è solo deficitaria sul piano dell’analisi di fase, ma rischia di apparire come un riflesso della politica dei 5 stelle che, nel mentre agitavano la bandiera del no alle grandi opere, firmavano un contratto di governo dove per il Nord è previsto l’incremento della ricchezza (con l’autonomia differenziata) e per il Sud la certificazione della miseria con l’introduzione delle Zone Economiche Speciali.
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