Doveva succedere ed è successo. Non sono migranti, anarchici, nè facchini della logistica. Erano ultras, di una squadra di una città dove si andrà a votare a breve. E dove molto si gioca, perché lì Salvini sa benissimo che gioca una partita simbolica. Lo ha capito anche il Pd.
Così Firenze è diventato un corto circuito che ha costretto il ministro degli interni a fare meno lo spaccone ed a rispondere alle interrogazioni parlamentare ed alla richiesta del sindaco Gori. A dover dire che si, farà delle verifiche interne.
Lui, che ha voluto sempre esporsi indossando la divisa, oggi non twitta più, dovrà capire se andare fino in fondo o fare muro, perchè è chiaro che chi ha gestito l’operazione di Firenze ha fatto una cazzata enorme.
Non è poca cosa in tempi di estensione dello stato penale massimo mettere sotto accusa una questura. Non lo è perché fino a ieri Pd e Salvini facevano a gara su chi di più girava la vite sulla sicurezza, e già tutti i giornali avevano già chiuso la vicenda con il solito schema.
Bergamo è così diventato caso nazionale, lo è diventato però anche per un altro motivo. A differenza dei migranti, gli ultras a volte prendono voce e vengono ascoltati, ed a differenza di molte curve quella atalantina non è disconnessa con la città.
Potete pur dire quello che volete agli ultras dell’Atalanta, certo di casini ne hanno fatti più di un uragano, ma quello che sono riusciti a fare in questi decenni ha una profondità sociale che in pochi comprendono.
Per capirlo occorre andare a vedere la festa popolare della Dea che fanno ogni estate. Una festa popolare enorme, dove ad esempio il sindaco di Amatrice dal palco ha riconosciuto l’enorme solidarietà della curva ai terremotati.
Da perugino, mi fa un certo effetto riconoscere agli amici dei ternani questo tributo, eppure cosi è.
Bergamo e la Dea ed i suoi ultras generano un mito a bassa intensità che andrebbe indagato seriamente. Il loro racconto della violenza subita è molto più potente di quello che si immagini per questo motivo, ieri ed oggi fabbriche e cantieri di Bergamo hanno sicuramente parlato più di questo che di altro. Hanno parlato di un’ingiustizia.
Che strano in un’epoca come questa, dove la solitudine è una infezione sociale, dover dire che gli ultras dell’Atalanta in fin dei conti tengono insieme un pezzo di città.
Anche a Perugia, i freghi con i quali sono cresciuto lo fanno, e sia chiaro a tutti, non è di certo semplice starci e crescerci in mezzo ai casini che generano, eppure i legami che ho con il mio gruppo sono per me un pezzo della mia vita che mai rinnegherò; mai. Io senza la mia curva, senza la mia ciurma rimarrei solo e disperso, ed invece so che ogni volta che ritorno ho una banda di fratelli e sorelle su cui contare.
Mi capita così di scendere quelle scalette e ritrovar racconti di storie che si tramandano dai vecchi ai giovani e diventano nel tempo leggenda. Sono tempi questi dove la memoria è persa, perché i nonni non raccontano più ai nipoti come raccontavano a noi.
Nella dittatura del presente c’è un gran bisogno invece di ritornare al racconto popolare, non quello dell’industria editoriale, nè tanto meno quello digitale. C’è bisogno di passarci le storie l’un con l’altro, perché può sembrare strano ma anche questo è un modo per resistere alla barbarie del tempo.
Lunga vita agli ultras.
Lunga vita al racconto popolare.
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