Julian Assange è stato arrestato oggi dalla polizia inglese dopo che il presidente Lenin Moreno ha revocato l’asilo politico in violazione del diritto internazionale ed in base a un mandato del 2012, quando, invece di consegnarsi a Scotland Yard per essere estradato in Svezia ed essere interrogato in merito alle accuse di stupro (poi archiviate), Assange si rifugiò nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra cui chiese asilo il 19 giugno 2012.
Il predecessore di Lenin Moreno, Rafael Correa, allora, gli aveva concesso protezione perché aveva ritenuto fondate le preoccupazioni del fondatore di WikiLeaks in ordine alla possibilità che un’eventuale arresto avrebbe portato ad una sua estradizione negli Stati Uniti dove, dal 2010, esiste un mandato di arresto coperto da segreto per divulgazione di documenti segreti “diplomatic cable”, ovvero, di rapporti ufficiali di funzionari e ambasciatori facenti capo al dipartimento di stato americano ed aventi come oggetto le relazioni tra funzionari americani e tra Stati e governi stranieri. Duecentocinquanta milioni di documenti confidenziali della diplomazia statunitense ed internazionale in grado di fornire una visione senza veli sui capi di stato e sui leader stranieri dell’epoca e dunque sui retroscena della politica estera USA.
L’arresto del fondatore di WikiLeaks era una “priorità” per l’amministrazione di Donald Trump. Jeff Sessions, a capo del dipartimento per la giustizia USA, ha preparato, nel 2018, gli atti di accusa contro WikiLeaks. In base a tali accuse, Julian Assange, in caso di estradizione, rischia l’ergastolo se non, addirittura, la pena di morte.
Alquanto singolare questa improvvisa svolta(ma del tutto in linea con il personaggio Donald Trump) se si tiene conto che è appena passato il ciclone Cambridge Analytica, ovvero, lo scandalo che ha travolto l’agenzia britannica accusata di avere spiato illecitamente almeno 50 milioni di utenti di Facebook e nota per aver sostenuto diverse campagne di candidati conservatori in giro per il mondo.
Ebbene, nel 2014, ai vertici di Cambridge Analytica c’era l’ideologo della destra radicale Steve Bannon, ovvero, proprio colui che grazie alle tanto controverse quanto efficaci attività della società londinese di “data mining”(estrazione automatica di informazioni utili da grandi quantità di dati quali database, datawarehouse ecc..) riuscì a portare il tycoon alla Casa Bianca.
Secondo Glenn Greenwald, il giornalista del quotidiano britannico The Guardian che ha seguito il caso Snowden, “… Julian Assange non è un cittadino americano e Wikileaks è un’agenzia di notizie estere […] L’idea che il governo degli Stati Uniti può estendere la propria portata a qualunque agenzia di stampa in qualunque parte del mondo e criminalizzare la pubblicazione di documenti è agghiacciante.“
Già accademici e attivisti statunitensi avevano duramente condannato l’impianto accusatorio del Dipartimento di giustizia USA denunciando i gravi pericoli che ne possono derivare per la libertà di stampa tutelata dal primo emendamento della costituzione degli Stati Uniti e per la libertà di stampa in tutto il mondo.
L’arresto di Assange, oltre ad essere un fatto di gravità inaudita sia in tema di libertà di informazione che per le libertà individuali e collettive, assesta un altro duro colpo al mito di Internet inteso quale illimitata possibilità di accedere liberamente a tutte le informazioni e conoscenze e come strumento in grado di mettere in trasparenza i meccanismi del potere politico e finanziario mondiale.
Secondo gli assertori di queste teorie, attraverso la rete, il potere tout court sarebbe stato sottoposto al controllo dei cittadini tramite nuove forme di democrazia diretta e partecipativa.
Così non è stato e l’accanimento nei confronti di Wikileaks e del suo fondatore, ratifica, in modo definitivo, la fine di questo mito perché è stata proprio l’organizzazione di Assange ad avere perforato in maniera sorprendentemente efficace il muro di opacità e di segreti del potere mondiale.
Ciò mentre continuano a venire alla luce una serie infinita di violazioni crescenti della privacy degli utenti e di attività abusive messe in atto da parte dei giganti del Web: inadeguati o assenti controlli sui contenuti; accordi segreti con partner privati; cessione abusive di dati personali sensibili ed ultrasensibili; commistioni con attività di spionaggio e controllo sia sulle attività degli Stati che nella vita privata dei cittadini.
Tutte trame che riconducono a una feroce cultura aziendale ed una evidente commistione con le lotte per il potere ed i suoi meccanismi che – come emerso da documenti interni portati alla luce da inchieste giornalistiche e parlamentari – calpesta ogni più elementare principio e diritto sacrificandoli sistematicamente ad una costante, ossessiva e scientifica logica che deve sempre e comunque portare alla illimitata crescita dei profitti.
Una logica spietata e selvaggia all’interno della quale gli utenti della rete non sono altro che merce da “vendere” per catturare sempre più pubblicità.
La metamorfosi del Movimento Cinque stelle che ha costruito le sue fortune politiche (in rapida discesa) attorno a quel mito è un altro esempio di come, alla prova dei fatti, quella convinzione si sia infranta contro le dinamiche reali del capitalismo e contro le sue strutture politiche e statuali.
Certo, rispetto agli epigoni nostrani di quelle “utopie letali”, Julian Assange sta dalla parte diametralmente opposta.
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