E l’acqua si riempie di schiuma il cielo di fumi
la chimica lebbra distrugge la vita nei fiumi,
uccelli che volano a stento malati di morte
il freddo interesse alla vita ha sbarrato le porte.
Un’isola intera ha trovato nel mare una tomba
il falso progresso ha voluto provare una bomba,
poi pioggia che toglie la sete alla terra che è vita
invece le porta la morte perché è radioattiva.
Pierangelo Bertoli
Nelle ultime settimane si è imposto al centro del dibattito, in forme nuove e inedite, il tema dell’ambientalismo. Ci sono state enormi manifestazioni in tutto il mondo; di particolare rilievo anche quelle che si sono tenute in Italia, soprattutto se si considera la difficoltà di mobilitazione delle masse che attualmente affrontano i vari movimenti politici.
Il movimento ambientalista cova in sé valori e visioni del mondo condivisibili e ricchi di potenzialità. La battaglia per la difesa dell’ambiente è la nostra battaglia e deve essere una priorità per chiunque oggi faccia lo sforzo di provare a immaginare un’alternativa al sistema economico dominante. Al contrario, la particolare sfumatura di ‘radicalismo chiacchierone’, stando alla quale occuparsi dell’ambiente prima di avere abbattuto il capitalismo sarebbe un vezzo borghese, è semplicemente una stupidaggine, buona soltanto per fornire una giustificazione alla propria inutilità e marginalità.
Tuttavia, è importante individuare potenziali elementi contraddittori del movimento che in questi giorni ha riacceso i riflettori su una tematica così importante, elementi che, spesso contro la stessa volontà soggettiva di chi è impegnato in sacrosante battaglie, finiscono per rendere molte istanze pienamente compatibili con gli equilibri dell’ordine socio-economico costituito.
La principale grande contraddizione di alcuni movimenti ambientalisti, una parte dei quali convergenti nelle più recenti mobilitazioni di piazza, è quella di non individuare nel modo di produzione dominante la vera causa dell’inquinamento ambientale, della distruzione degli ecosistemi e dei paesaggi, nonché del fragile equilibrio che esiste tra natura e uomo. In secondo luogo, in molti movimenti ambientalisti – sorti a partire dagli anni ’80 come valvola di sfogo del riflusso che era seguito alla sconfitta dei movimenti della sinistra extra-parlamentare del decennio precedente – si è avuta la forte tendenza a sostituire alla critica dello sfruttamento del lavoro la critica dello sfruttamento dell’ambiente in quanto tale, come dinamica separata dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Questa mancata considerazione della centralità del modo di produzione capitalistico ha tre immediate conseguenze:
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il richiamo a buone azioni individuali da parte del singolo come apparente e falsa soluzione del problema;
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un orizzonte di azione limitato, per cui l’obiettivo di fondo sarebbe risolvere le problematiche ambientali anche in un’ottica di piena compatibilità con il modo di produzione capitalistico;
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la non individuazione del fatto che, senza la messa in discussione delle basi del sistema economico dominante, forti interessi imprenditoriali sono perfettamente in grado di cavalcare l’onda ambientalista investendo, spesso sostenuti da lauti finanziamenti pubblici, in settori del cosiddetto ‘capitalismo verde’, con tutte le conseguenze distributive che ciò comporta.
Un’analisi più approfondita degli stretti legami tra modo di produzione e ambiente può invece contribuire a evitare alcune delle potenziali derive del movimento ambientalista, la cui nascita e crescita è sicuramente un’opportunità per migliorare il rapporto tra l’uomo e la natura. Proprio per rendere questo movimento più forte, e la sua azione più efficace, confidando che la critica sia costruttiva e che il movimento esca rafforzato dal dibattito interno, proviamo ad affrontare le tre questioni più analiticamente.
Le buone azioni individuali come apparente e falsa soluzione del problema
Nel recente dibattito sui cambiamenti climatici o sui problemi dell’inquinamento ambientale, spesso si sentono appelli generici all’adozione di comportamenti individuali virtuosi e rispettosi dell’ambiente, quasi fosse la via preferenziale per risolvere gli squilibri causati dalle azioni antropiche sugli equilibri naturali. Si tratta di un ambientalismo che potremmo definire ‘individualista’ nel metodo e nel merito.
Stando a questo approccio, l’azione individuale, anziché quella collettiva, viene vista come mezzo per raggiungere gli obiettivi preposti. Da un lato, si tende a far ricadere le responsabilità sul singolo consumatore che utilizza troppa plastica, che non effettua la raccolta differenziata o che prende la macchina per andare al lavoro. Dall’altro, si pone l’attenzione su comportamenti del singolo individuo, spesso non controllabili, non verificabili o magari, in alcuni casi, neanche realmente inquinanti e allo stesso tempo si sorvola sulle gigantesche responsabilità delle grandi industrie che producono adottando tecnologie altamente inquinanti e devastando interi territori.
Peraltro, senza cambiare il sistema di produzione tramite regole, è difficile che il singolo modifichi i propri comportamenti: ad esempio, finché si confeziona in plastica ogni prodotto è molto difficile che il consumatore litighi con ogni commerciante per come viene impacchettata la merce acquistata. È possibile che qualcuno lo faccia, ma nei grandi numeri questo non avviene per ovvie ragioni (discorso simile si può fare per la delega al consumatore del controllo fiscale del commerciante mediante la richiesta dello scontrino).
Il ‘tipico’ ragionamento errato è il seguente: se io riuso il mio sacchetto della spesa, magari anche non di plastica, e lo dico ai miei amici e tutti i miei amici lo dicono ai loro amici, prima o poi non si userà più plastica, e (forse) questi sacchetti non saranno più prodotti.
Un ragionamento diverso potrebbe, invece, essere il seguente: tramite un aperto impegno politico ottengo una legge che vieti l’utilizzo di sacchetti in plastica nei supermercati. Nel primo caso si ha un ragionamento autoassolvente – poiché è verosimile che la mia singola condotta tendenzialmente non cambierà niente – che appaga la coscienza senza che siano richiesti grandi sforzi. Nel secondo caso si può aspirare a ottenere il risultato sperato, ma è molto più faticoso: bisogna aderire ad un partito o fare pressione su un partito perché proponga e approvi la legge, oppure raccogliere firme, sensibilizzare l’opinione pubblica… in poche parole, occorre attivarsi realmente.
L’ambientalismo individualista produce, inoltre, un effetto di selezione avversa per cui l’ambientalismo stesso diviene un orpello dei ricchi o di chi può permetterselo, scatenando rabbia e invidia sociale nei poveri, spesso la maggioranza. Il caso dei gilet gialli è il più lampante, ma pensiamo a quanto sia difficile utilizzare biciclette anziché automobili da parte di chi non vive vicino al posto di lavoro e deve ogni giorno attraversare la città dalla periferia al centro e ritorno, con ogni condizione climatica: la colpa dell’inquinamento non può pertanto essere affibbiata al lavoratore che, oltre che essere sfruttato, dovrebbe sentirsi anche in colpa per l’inquinamento. Piuttosto, andrebbe considerato il fatto che il sistema non offre alternative efficaci a basso inquinamento, quali un sistema di mezzi pubblici funzionante e capillare.
È evidente, del resto, che l’apparato di potere politico-mediatico che sostiene il sistema di relazioni economiche dominante lavora alacremente per alimentare il sentimento ambientalista individualista, rinfocolando il senso di colpa dei singoli individui consumatori, rei di praticare comportamenti non virtuosi, per assolvere indirettamente i veri protagonisti della distruzione del pianeta: le grandi imprese che devastano ogni giorno ambiente e territorio.
In sostanza, l’ambientalismo non può essere individuale o ‘a misura d’uomo’: per affrontare questi temi, anche coinvolgendo la comunità scientifica che già da anni pone questioni e soluzioni, criticità e risposte, occorre riconoscere che solo tramite la politica e l’azione collettiva si può cambiare il mondo. Il primo passo sarebbe, pertanto, comprendere che la causa prima dell’inquinamento non è una filosofica malvagità umana, ma piuttosto una pratica economica quale il capitalismo, e in particolare il liberismo e il progressivo arretramento dello Stato davanti all’avanzare del mercato.
La limitatezza dell’orizzonte di azione e la compatibilità con il modo di produzione capitalistico
A ciò si lega il secondo aspetto critico: è vacuo, contraddittorio o persino controproducente portare avanti una battaglia seriamente ambientalista senza combattere al contempo il sistema di produzione che danneggia l’ambiente, cioè il capitalismo in quanto tale. Il capitalismo in sé, un sistema basato sul mero incremento del profitto, tende, oltre a generare il sistematico sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ad un inevitabile sfruttamento delle risorse naturali.
È davvero ragionevole sperare che un sistema che produce povertà e disuguaglianze possa essere limitato sulla base di sincere remore ambientali? Va, tuttavia, anche detto che una regolazione finalizzata quantomeno a limitare la devastazione dell’ambiente e delle risorse naturali è in via ipotetica pensabile (e da diversi paesi almeno in parte già attuata) anche dentro al modo di produzione corrente, tramite forme più o meno blande di tutele ambientali che non intaccano in modo rilevante gli interessi dei capitalisti.
Il problema diventa allora capire su chi ricade, in termini di distribuzione degli oneri, il costo della salvaguardia dell’ambiente. Ecco che la questione ambientale non può essere in alcun modo disgiunta da quella sociale e distributiva, a livello nazionale e internazionale.
L’uso di tecnologie meno inquinanti, la riconversione della produzione, la capacità di riciclare ciò che è riciclabile, sono azioni costose i cui costi possono essere variamente distribuiti a seconda di scelte eminentemente politiche. In paesi dove si vive con meno di un dollaro al giorno, e si muore di fame, non molti avranno a cuore l’ambiente, pressati da problemi più urgenti, e, se anche ci fosse la volontà, mancherebbero le risorse materiali. Laddove, invece, nei paesi ricchi vi siano risorse potenziali abbondanti per abbattere l’inquinamento, occorre chiedersi chi si stia davvero sobbarcando i costi della possibile transizione ecologica.
Non è quindi possibile scindere la critica allo sfruttamento dell’ambiente dalla critica allo sfruttamento dell’uomo. Credere che sia sufficiente una sensibilizzazione dei decisori di politica ambientale sui danni che il sistema economico arreca all’ambiente a beneficio della collettività, fuori da una più generale critica dei meccanismi capitalistici, è nel migliore dei casi una mera illusione, nel peggiore una concezione che non tiene conto in alcun modo dell’impatto distributivo della tutela dell’ambiente.
Il ‘capitalismo verde’, ossia come gli interessi dominanti sono in grado di cavalcare l’onda ambientalista
Questo ragionamento ci porta in modo naturale alla terza considerazione e contraddizione. È ormai da diversi anni nota la capacità del capitalismo di fagocitare il tema ambientale, depotenziandolo e trasformandolo in occasione di profitto. Da almeno due-tre decenni si parla di ‘capitalismo verde’ in riferimento a tutto quel mondo, in rapida crescita, di imprese, spesso grandi multinazionali, dedite alla produzione di energie rinnovabili oppure che si fregiano di adottare tecnologie produttive ad un più basso tasso di emissioni inquinanti. Qui il problema è duplice.
Da un lato si pone una questione di direzione della ricaduta dei costi della riconversione ecologica. Sovente le imprese che producono energie rinnovabili ricevono fiumi di sussidi dai governi, pagati tramite la fiscalità generale che è sostenuta nell’essenziale dai lavoratori. A riguardo, il Catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi e dei sussidi ambientalmente favorevoli (una sorta di censimento dei sussidi statali curato dal Ministero per l’Ambiente) indica che, nel 2016, dei 41 miliardi di aiuti al sistema produttivo (che si sostanziano in sgravi fiscali e sussidi diretti), ben 16 sono stati considerati ‘ambientalmente favorevoli’, e pertanto assimilabili a varie realtà operanti nel variegato universo del capitalismo verde.
Dall’altro, ed emblematica è a riguardo l’attualissima vicenda francese, le misure proposte per ridurre l’inquinamento da parte dei governi passano per la maggior tassazione di beni inquinanti il cui uso ricade essenzialmente sulle fasce di reddito basse e medie (come l’automobile).
Se si vuole avere come bussola un impatto distributivo non regressivo di una politica ambientale, il primo passo è rifiutare ogni delega della stessa al mercato. Politiche di tutela dell’ambiente e di riduzione dell’inquinamento non possono che passare per un intervento pubblico di pianificazione e controllo, che non rimetta nelle mani degli attori privati tramite gli incentivi di mercato la gestione dei processi e che non incida in modo iniquo sulla distribuzione del reddito, facendo pesare i costi della riconversione ecologica sulle fasce più deboli della popolazione tramite politiche fiscali di stampo regressivo.
Tutto l’opposto insomma di quelle politiche ‘ambientaliste’ di stampo liberista che delegano al mercato la soluzione dell’inquinamento e che hanno fatto esplodere in Francia la sacrosanta protesta dei gilet gialli contro l’ultraliberista e ambientalista à la page Emmanuel Macron.
Per concludere
La cura dell’ambiente e della natura è una priorità assoluta per la stessa sopravvivenza dell’uomo e per una buona vita sana, equilibrata e rispettosa del contesto in cui l’uomo vive, ovvero il pianeta Terra. Se però si inverte la logica e la tutela della natura diviene un obiettivo quasi autonomo dalla tutela della dignità umana e dalla lotta contro ogni sfruttamento, si può finire risucchiati in un vicolo stretto e senza uscita.
È per molti aspetti vero che l’economia di mercato non tollera alcun limite alla massimizzazione del profitto, ivi compreso il limite al libero sfruttamento dell’ambiente, della terra, dei mari e dell’aria; allo stesso tempo è anche vero che, alla lunga, lo sviluppo tecnologico potrebbe dar vita a tecnologie sempre meno distruttive dell’ambiente e sempre meno costose. E tuttavia, se anche questo mai accadesse, il capitalismo, per sua stessa definizione e tensione naturale, continuerebbe a perpetrare il quotidiano sfruttamento sistematico dell’essere umano.
A quel punto, un ambientalismo che non parta dal presupposto della critica del modo di produzione capitalistico e dello sfruttamento del lavoro si potrebbe perfettamente conciliare con quel modo di produzione che pratica l’annichilimento dell’essere umano per la massimizzazione del profitto: una conclusione che demolirebbe lo stesso fondamento umanistico di ogni concezione solidaristica del mondo cui l’ambientalismo tuttavia si richiama.
In conclusione, ambientalismo ed ecologismo possono essere forze propulsive dell’emancipazione e della solidarietà, se inseriti in una visione più generale dei rapporti sociali che parta da una critica radicale del modo di produzione dominante e da una proposta radicale di trasformazione dei rapporti sociali. Bisogna rivendicare un mondo sano, un ambiente salubre e una Terra pulita per il miglioramento della qualità della vita umana in armonia con il contesto naturale.
Del resto, di un mondo pulito dove vivono esseri umani in catene, cosa ce ne faremmo?
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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Manuela De Angelis
Concordo su tutto e ricordo che i CAPITALISTI sanno benissimo che i VERI AMBIENTALISTI sono come i pomodori: DA VERDI DIVENTANO INEVITABILMENTE ROSSI (non ricordo di chi sia l’illuminante frase…mi sembra di un politico tedesco dei primissimi anni ’90, ma potrei sbagliare…)