L’Europa sta andando alle urne in un clima di contrapposizione tra pensiero liberale, populisti e sovranisti. Ma è davvero così? Secondo un dossier sui populismi di Le Monde Diplomatique questo è un match ingannevole.
Qualche tempo fa Steve Bannon, da noi ospitato e molto citato, dava la sua spiegazione sull’ascesa del populismo. “La miccia che ha innescato la rivoluzione di Trump è stata accesa il 15 settembre 2008 alle ore 9, quando la banca Lehman Brothers è stata costretta al fallimento”. L’ex stratega della Casa Bianca ed ex vicepresidente della Goldman Sachs sa che la crisi è stata violenta. “Le élite si sono aiutate da sole. Hanno socializzato interamente il rischio. Ma la gente comune chi l’ha salvata?”. Questo “socialismo per i ricchi” avrebbe provocato in diversi punti del globo una vera “rivolta populista”.
Oggi non si profila, come undici anni fa, una tempesta finanziaria (fino a prova contraria) ma sono entrati in crisi alcuni pilastir dell’ordine liberale del dopo guerra fredda, quello della Nato, delle istituzioni finanziarie occidentali e la liberalizzazione dei commerci, di cui è emblematica la guerra dei dazi tra Usa e Cina.
Pur di salvare gli Stati Uniti dall’ascesa economica e tecnologica di Pechino, Trump mette in forse la globalizzazione degli scambi che sembrava il motore di ogni cosa e soprattutto pareva che rendesse quasi inutile la politica. Il presidente americano ora mette in dubbio un altro pilastro degli Usa e occidentale: che la democrazia di mercato sia la forma compiuta della storia. E ha fatto qui in Europa i suoi proseliti, che in molti casi con Orbàn in Ungheria, Le Pen in Francia e Salvini in Italia lo hanno persino preceduto.
Certo si fa riferimento ancora al capitalismo ma veicolato da un’altra cultura, “illiberale”, nazionalista e autoritaria che esalta il “Paese profondo” anziché i valori delle grandi metropoli. Un vecchio e caro mondo antico che ovviamente non esiste più da un pezzo se non nell’immaginario collettivo dei localismi.Va quindi in scena una sorta di contrapposizione tra classi dirigenti: liberali contro populisti.
In realtà i nuovi venuti mirano quanto coloro che li hanno preceduti ad arricchire le classi agiate ma sfruttando il sentimento di repulsione e di rabbia nutrito dalle classi popolari nei confronti del liberalismo e della socialdemocrazia.
Come Trump i leader conservatori dell’Europa centrale sono riusciti a mettere a servizio dei ricchi la legittimità popolare di uno Stato “forte”. Sovranisti e populisti, al di là della retorica elettorale, non vogliono rovesciare il tavolo del capitalismo ma soltanto cambiare i giocatori che stanno seduti a quel tavolo.
Anzichè garantire i diritti sociali o sindacali, quelli che in primo luogo dovrebbero interessare i lavoratori, il potere si afferma chiudendo le frontiere ai migranti e proclamandosi garante dell’ ”identità culturale” della nazione. Il ritorno allo Stato si esprime quindi con il filo spinato a Est e con i porti chiusi a Sud.
Questa strategia di comunicazione finora ha funzionato. Mentre le cause della crisi finanziaria ed economica che fatto barcollare il mondo un decennio fa rimangono intatte, in Paesi come l’Italia, l’Ungheria o in regioni come la Baviera, lo spauracchio è la questione dei rifugiati. E su questo terreno la sinistra, simbolo di una borghesia istruita, liberale e persino “radical chic”, è stata perdente.
In realtà, andando oltre le divisioni schematiche tra liberali, populisti e sovranisti, c’è una crisi di rappresentanza dei veri interessi popolari. E non si vede, per ora, un’alternativa politica.
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