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Via Fracchia, 28 marzo 1980

Coperta dalle tenebre, il 28 Marzo 1980, in via Fracchia, a Genova, fu compiuta una strage. Premeditata ed eseguita, a sangue freddo, dagli uomini della Benemerita, al comando di un generale. Sorriso cupo e giacca uguale.

Quel generale rispondeva al nome di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Con una familiare tendenza al golpismo (il fratello era rimasto coinvolto nel “piano Solo”, anni ‘60; il nonno si era distinto nella lotta al “brigantaggio” meridionale, venendo però sconfitto in battaglia campale dall'”esercito” di Ninco Nanco e quindi sostituito). Uno di quei piccoli e biechi “eroi” in divisa con cui lo Stato borghese ama fregiare la sua prepotenza, autoritaria e repressiva.

Irruppero i carabinieri, in Via Fracchia, nel cuore della notte. Irruppero, ma con le chiavi sottratte al brigatista Rocco Micaletto, precedentemente arrestato. Irruppero grazie alle indicazioni fornite dal pentito Patrizio Peci. Irruppero, si fa per dire, e spararono, uccidendo quattro compagni delle Brigate Rosse che là avevano la loro sede operativa.

Spararono senza alcuna democratica pietas, uccidendo tre uomini e una donna, pronti ad arrendersi. Perché queste erano le disposizioni della Direzione Nazionale delle Br. Non opporre resistenza quando ci si fosse trovati dinanzi all’inevitabilità di un arresto.

Spararono cinquanta proiettili in un appartamento piccolo e stretto, i militari dell’Arma. Senza che da parte dei compagni ne fosse esploso alcuno. Sin da subito, d’altronde, le perizie balistiche evidenziarono le incongruenze nella versione dei Carabinieri.

Spararono e uccisero, Dalla Chiesa e i suoi militari, semplicemente per dare una lezione a quei brigatisti.

Una dimostrazione di forza dello Stato e dei suoi squadroni della morte, che invocavano, con furente orgoglio cameratesco, sangue e vendetta, per i loro uomini uccisi dai comunisti combattenti e dalla colonna genovese, nei mesi addietro. Logica di rappresaglia, non da Stato di diritto.

Se non fosse stato per la delazione di Peci, diventato poi per anni il prototipo de “l’infame”, il lavoro per scoprire “covo” e “colonna” sarebbe stato molto più incerto e lungo.

E già, perché a dispetto di tutti gli enunciati del Potere – ma anche di non pochi compagni – che vorrebbero le Br composte da quattro terroristi fanatici, scollati dalla realtà e infiltrati da qualunque servizio segreto del pianeta, quelle Br, soprattutto a Genova, godevano invece di una protezione sociale capillare.

Una fitta rete metropolitana, cucita a maglie strettissime, il cui tessuto era costituito dal nuovo proletariato urbano di quegli anni e dall’operaio-massa che si era andato affermando, dalla fine degli anni ’60, nel triangolo industriale e perciò stesso anche nel capoluogo ligure.

Basti pensare alle parole di Caterina Picasso, piccola grande anziana donna genovese che, interrogata dai magistrati, rispose con fierezza che lei “da che parte stare” lo aveva sempre saputo!

Spararono ed uccisero, i Carabinieri di Dalla Chiesa. Uccisero in deroga ad ogni regola d’ingaggio e in violazione di ogni principio democratico. Uccisero perché è nella natura del regime borghese non volere antagonisti.

Davanti a loro, una donna e tre uomini pronti a morire per la causa del comunismo. Per quella causa lottavano, sparavano e uccidevano anch’essi. E dunque, sapevano di poter morire in un qualunque momento o in un qualunque conflitto a fuoco.

Qui non si invoca, allora, l’innocenza dei compagni. Si sbugiarda e si rivela, invece, la vergognosa menzogna che, da quarant’anni, tortura le nostre intelligenze e seppellisce la verità sotto cumuli di macerie storiche.

Unaa verità, essa sì, consustanziale allo Stato italiano, colluso con la mafia e stragista usando anche l’eversione nera.

Una verità fatta di sfruttamento, purché sia, del lavoro salariato. Fatta di estrazione del profitto, a qualunque costo, dalla forza lavoro.

In tal senso, l’articolo 1 della cosiddetta Costituzione nata dalla Resistenza può esser letto in altro modo. “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” in quest’altro senso è praticamente la ratifica, senza possibilità di replica, dell’articolazione dell’organizzazione aziendalistica del vivere sociale e della supremazia del ceto imprenditoriale sulla classe lavoratrice. Di cui viene garantito l’uso a utilitaristici, asettici fini produttivi e di cassa.

Fu dunque per difendere questo sfruttamento e il profitto che ne deriva ai loro stessi padroni, che i servi in divisa del sistema – e dello Stato che di esso si fa garante politico – spararono e uccisero, quella notte, a Via Fracchia. Oltre che, ovviamente, per “vendetta di corpo”.

Un sistema ed uno Stato che, per sconfiggere il movimento rivoluzionario comunista, che in quegli anni ne stava minando le istituzioni e la tenuta – in nome dell’uguaglianza e del riscatto dei dannati della terra dalla dittatura del Capitale – hanno fatto ricorso ad ogni mezzo pur di vincere.

Dall’omicidio a sangue freddo alla tortura poliziesca; dalle leggi speciali all’arresto di massa; dallo stupro delle militanti alle violenze carcerarie.

Quei quattro compagni, vogliamo ribadirlo con tutta la serietà della nostra appartenenza alla Lotta di Classe, non erano innocenti nel senso cristiano del termine.

Erano quattro guerriglieri che lottavano, con la rabbia secolare della loro “classe”, la violenza e con le armi, per le proprie idee.

Idee di riscatto, di libertà, di giustizia sociale. Da scagliare contro un regime brutale, feroce, repressivo, inumano, stragista (se se ne sarebbe avuta nuova conferma, di lì a poco, alla stazione di Bologna).

Un regime fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla prevaricazione di una classe sull’altra, sull’individualismo a scapito della collettività, sulla violenza della ricchezza esercitata ai danni della povertà.

Un sistema ed uno Stato che si abbia il pudore di non definire, quindi, “democratici”. Si dovrebbe avere il coraggio di chiamarli con il nome che ad essi è proprio: dittatura neoliberista del mercato!

Capace di reificare ogni manifestazione dello spirito umano. Di far scadere ad oggetto di trattiva mercantile e a contratto, persino una relazione affettiva.

Contro il dominio incontrastato della merce, la tirannia del mercato, l’incongrua divisione del lavoro, la società divisa in classi.

Contro l’iniquità di un’ideologia avida a tal punto di potere e di denaro, da concepire stragi di cittadini inermi, pur di mantenere inalterato il proprio privilegio.

Contro lo strapotere di uno Stato, che anziché delinearsi quale fautore del bene comune veniva sempre più configurandosi come comitato d’affari delle borghesie finanziarie.

Contro l’imperialismo guerrafondaio dell’Occidente e delle Multinazionali.

Contro la distorsione carceraria, concepita quale discarica sociale dentro cui gettare vite posdatate.

Contro il diktat sociale del Sorveglia Punisci Produci Compra Muori. Contro tutto questo e per il comunismo e la libertà, insorgevano in armi quei compagni.

Riccardo Dura, Annamaria Ludmann, Lorenzo Betassa, Piero Panciarelli erano dunque quattro combattenti, consapevoli di poter morire. L’assalto al cielo valeva bene il rischio della vita.

Quello che non sapevano è che sarebbero stati trucidati a freddo, dopo essersi arresi, da uomini con la divisa di una Repubblica che ufficialmente dichiarava l’utilizzo di metodi democratici nella lotta al cosiddetto “terrorismo rosso”, ma in realtà faceva uso di un’autorità arbitraria e indiscriminata, fuori da ogni regola, pur di vincere quella guerra.

Una guerra civile a bassa intensità, che le istituzioni non hanno mai avuto il coraggio di riconoscere come tale.

Una guerra civile scatenata dallo Stato stesso, e ben prima di Piazza Fontana, a difesa di quella “sovranità limitata” – sotto “l’ombrello Usa” – che gli conferisce il potere di decretare (oggi come allora) lo Stato d’eccezione, secondo le parole di Carl Schmitt.

E la Repubblica Italiana, lo stato d’eccezione lo aveva decretato sin dalla seconda metà degli anni ’60, di fronte all’avanzamento delle forze progressive, della classe operaia, del movimento per la liberazione della donna e di quello degli studenti.

Ampi strati di società che reclamavano a gran voce i propri diritti. Stanchi dell’abuso praticato nelle fabbriche e nel consesso civile; in famiglia e, nel caso delle donne, sul proprio corpo. Stanchi di un regime borghese e reazionario frusto e oppressivo.

Riccardo, Annamaria, Lorenzo e Piero erano parte di quel movimento, parte di quella classe operaia, parte di quei dannati e ultimi che rivendicavano un protagonismo politico sulla ribalta della Storia.

Sono morti col sogno rivoluzionario svanito alle prime luci di ua fredda alba primaverile. Acquerello scolorito dal lavaggio a secco praticato dai maggiordomi del Potere.

Per loro non invochiamo commemorazioni. Non costruiamo lamentosi “paradigmi vittimari”. Non convochiamo piagnucolose prefiche del giornalismo italico sulle lapidi.

Di quelle, per intenderci, che dal 28 Marzo stanno, senza smentirsi, facendo sfoggio di giornalismo questurino andando a spulciare tra le bacheche di Facebook, per poi sbattere, sui loro miseri fogli, post e commenti in ricordo di quella strage.

È capitato nuovamente a Barbara Balzerani (successe con il quarantennale di Via Fani e ne scrivemmo sul nostro giornale: qui l’articolo Fasti e nefasti), il cui profilo è stato ancora una volta preso di mira da prodi cronisti in cerca di residuale notorietà, per aver semplicemente riportato la data di quel massacro con un cuore.

Cronisti i quali, dalle loro comode poltroncine redazionali hanno, alla stregua di un qualunque sbirro, accusato la Balzerani di reato di memoria e di eccesso di amore verso quei fratelli così barbaramente assassinati, quarant’anni or sono, a Via Fracchia.

Con la Digos che, addirittura, annuncia un’indagine per accertare eventuali collegamenti tra ex brigatisti e attuali gruppi anarco-insurrezionalisti. Siamo davvero oltre il grottesco!

Anche se l’intento orwelliano di questa azione congiunta, orchestrata dalla stampa mainstream e dagli organi repressivi del cosiddetto Stato democratico, appare evidente: cancellare il diritto di conservare memoria di quegli anni attraversati da un duro conflitto sociale tale da esitare in una vera propria guerra civile a bassa intensità, come già accennato in precedenza.

Ecco perché noi, per quei compagni, non impetriamo “memorie condivise”. Per loro basta la nostra memoria partigiana e di classe.

Solo pretendiamo che tacciano, una volta e per sempre, le menzogne che da quarant’anni strappano, anno dopo anno, brandelli di carne viva dai loro corpi assassinati. Roba da necrofili armati di penna…

E pretendiamo che si ristabilisca la verità su quella storia. La Storia di quella che fu, a tutti gli effetti, una strage di stato. La storia di Via Fracchia.

E, con essa, la storia di un tentativo di rivoluzione armata comunista che, seppur sconfitto, fece sognare una generazione di proletari e di ultimi.

Questo sì, lo pretendiamo!

*****

P.s. Qui sotto, la voce della compagna e attrice Marcella Vitiello, regala intensità alle parole emozionanti, severe e commosse di Barbara Balzerani, storica dirigente delle Br-Pcc. Parole scritte qualche tempo fa, in risposta ad un vergognoso articolo, uscito sul Corriere XIX, a firma di tal Marco Peschiera. Uno di quei pennivendoli prezzolati dal regime, il quale, in sprezzo di ogni senso del ridicolo, paragonava Riccardo Dura – nome di battaglia Roberto – ucciso a Via Fracchia, ad un terrorista dell’Isis.

Una delle prodezze da maramaldo che restano ad onta perenne di una sedicente democrazia, in cui la pietas cristiana è anch’essa riservata a taluni morti sì, altri no. Nonostante il perdurante, o sedicente, richiamo ad una memoria nazionale e condivisa. Una memoria che però, sistematicamente, dimentica i caduti per mano dello Stato, dei suoi organi repressivi, della manovalanza al servizio dei sui Servizi. Memoria selettiva e classista alle origini. Per la quale, i vinti non hanno dignità di sepoltura.

E allora, Barbara Balzerani, assumendo su di sé l’etica tragica di una moderna Antigone, a quell’amato fratello – caduto sotto i freddi proiettili sparati dagli uomini di Dalla Chiesa, quella maledetta notte di primavera – restituisce dignità con la sua scrittura!

(Immagini e montaggio a cura di Vincenzo Iaccarino)

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