“La paura è uno dei sintomi del nostro tempo. Tanto più essa suscita costernazione in quanto è succeduta a un’epoca di grande libertà individuale, in cui la stessa miseria, per esempio quella descritta da Dickens, era ormai quasi dimenticata.”
Negli ultimi cinque anni il dibattito sull’integrazione politica europea, nel recente passato considerata trionfalmente come un dato acquisito e irreversibile, ha trovato crescente spazio nell’agone politico del continente. L’euroscetticismo, una volta considerato con malcelato disprezzo un orientamento proprio di frange estreme e marginali, è via via diventato un vero e proprio cavallo di battaglia di formazioni politiche tutt’altro che irrilevanti, attraverso tutto lo spettro politico: queste hanno tentato, a volte con discreto successo, di cavalcare la crescente e istintiva sfiducia degli europei nei confronti dei leader dell’Unione.
Una sfiducia di norma ridicolizzata dalle intelligencije “illuminate” ma che, fermentando nel disprezzo delle élite, da lungo tempo serpeggiava specialmente tra coloro che in un modo o nell’altro erano destinati da principio a pagare l’integrazione: in primis i lavoratori e la piccola impresa a basso valore aggiunto dei paesi periferici.
Oggi, anche grazie all’ottusità di quei leader e alla presunzione di quel ceto intellettuale, l’idea di abbandonare il sogno europeo risulta meno comica e molti sorrisi di scherno si sono congelati in ghigni amari di frustrazione. Molte frecce nella faretra europeista si sono spezzate via via che l’establishment si rivelava inadeguato a rispondere alle crisi e a tutelare le fasce deboli della società dalla povertà e dall’insicurezza.
Il modello di welfare europeo, la solidarietà europea, le radici democratiche e umanitarie dell’Europa hanno ispirato e convinto, a torto o a ragione, tre generazioni di menti, ma sempre di più ormai suonano a vuoto, e convincono sempre meno. Quando qualcuno tira in ballo queste antiche Muse del sogno europeo può senz’altro aspettarsi la dura contestazione dei fatti, prima che delle persone.
Gli argomenti più efficaci rimasti in fondo all’arsenale del partito dell’Unione Europea sono essenzialmente due. Uno è la paura, da sempre un formidabile alleato dello status quo. Sempre più insistentemente i funzionari di questo partito trasversale proclamano che non c’è salvezza fuori dall’Unione.
Essendo noi inadeguati a tenere i conti in regola, come sapremmo rispondere alle “sfide della globalizzazione” fuori dall’ombrello dell’Unione Europea? Come potremmo essere giusti, liberi, ricchi, ma soprattutto competitivi, allontanandoci da questa nostra famiglia infelice, certo, ma grande ed efficiente?
Il secondo argomento, che è connesso al primo più strettamente di quanto potremmo immaginare a prima vista, è il culto della tecnica. Bruxelles rappresenta la competenza, la responsabilità, il principio apollineo della nuova democrazia non partecipata, giustamente distante dalle passioni della democrazia “militante” novecentesca, dal conflitto, dal disordine e da una certa misura di arbitrio che attraversa i corpi politici vitali.
Negli organismi di Strasburgo e Francoforte non c’è posto per i “populisti” di qualsiasi colore, ma solo per rispettabili e austerissimi figuri, siano essi tecnici, politici navigati o anonimi burocrati. Tutto ciò piace ad ampi settori della nostra società, piace a tutti coloro che non hanno gli strumenti per leggere il ventunesimo secolo e ne sono spaventati.
Vorrebbero a un tempo liberarsi dei loro avversari politici e, in fondo, del loro stesso “disagio della libertà”, ipotecando la propria capacità di agire a beneficio di un’autorità distante e benevola.
Nei primi anni del dopoguerra, all’alba di questo processo di integrazione continentale, Ernst Jünger scriveva (non a proposito dell’Unione Europea, beninteso): “È un fatto che i rapporti tra i progressi dell’automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenere agevolazioni tecniche, l’uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà così ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore. Il singolo non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano.“
La figura analogica del Titanic, il gigante coi piedi di argilla, monumento insieme alla padronanza della tecnica e all’arroganza, sembra scritta per questi mesi: “Fintanto che il tempo si mantiene sereno e il panorama è piacevole, il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione di minore libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso di potenza dovuto alla velocità.
Ma non appena si profilano all’orizzonte iceberg e isole dalle bocche di fuoco, le cose cambiano radicalmente. Da quel momento non soltanto la tecnica abbandona il campo del comfort a favore di altri settori, ma la stessa mancanza di libertà si fa evidente: sia che trionfino le forze elementari, sia che taluni individui, i quali hanno conservato la loro forza, esercitino un’autorità assoluta”.
Con l’emergenza della pandemia molti, in Italia e altrove, più o meno insospettabili, cominciano a manifestare apertamente la loro rabbia e la loro sfiducia nei confronti delle istituzioni Europee. L’impressione generale è che l’ennesimo limite sia stato superato.
Ma tutto ciò non basta, e non può bastare a vincere le formidabili forze inerziali che ci tengono inchiodati alla nave, che in definitiva sono il senso di impotenza e la paura dell’annientamento.
Combattere la paura in noi e negli altri è il compito più importante e precondizione di ogni possibile liberazione, se non in se stesso già liberazione. Come questa lotta debba condursi in concreto, nell’oggi, è e rimane un problema aperto; ma tutti noi siamo chiamati a interrogarci in merito
Presto dovremo scegliere tra un confortevole quanto inesorabile declino economico, civile, esistenziale, e la sovversiva libertà. Tra l'”immaginazione gregaria” in seno alle vecchie vie e il regno della possibilità. Uno dei due deve essere sacrificato all’altro.
“Ma sin dai tempi più remoti si ripete la medesima scena: l’uomo getta la maschera, e allora subentra quella serenità che è l’immagine riflessa della libertà.”
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