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Usa, la rivolta degli esclusi

La rivolta che, in queste ore, sta letteralmente mettendo a ferro-e-fuoco la città di Minneapolis è sì una rivolta contro la polizia, ma è anche un evento che fa emergere qualcosa che va oltre il tradizionale razzismo degli agenti: non è certo un caso che il saccheggio, insieme alla distruzione di alcuni luoghi simbolo (commissariato), sia l’atto più praticato dai rivoltosi.

Ciò che si rivolta è l’esclusione: interi settori sociali esclusi dalla gestione dei profitti si riversano in strada ed esprimono con la violenza la loro rabbia. La rivolta diviene allora, come scriveva Furio Jesi, «un istante di folgorante conoscenza».

È l’esclusione che assume la consapevolezza di essere una esclusione collettiva, che non riguarda più solo il singolo individuo, “nero” o “bianco” che sia, bensì tutta una parte sociale che si riconosce in quella esplosione di rabbia.

Anche per noi, che siamo distanti da quelle fiamme, la rivolta diviene conoscenza: prendiamo atto che il razzismo e l’esclusione sono radicati in profondità nella società americana e che la sopportazione ha superato il livello di guardia.

La rivolta, insomma, rende evidente la contraddizione di un sistema profondamente diseguale; un sistema che se, da una parte, si auto-dichiara libero e democratico, dall’altra, si mostra con la maschera propria di un potere che arricchisce pochi a scapito di molti.

Una rivolta è sempre un evento distruttivo; ma è anche, allo stesso tempo, un evento che annuncia una verità. Ed è proprio per questa sua virtù che la rivolta va guardata con favore.

Certo, potremmo discutere su come quella sospensione dell’ordine prepari il suo “dopo”; ma sarebbe una discussione oziosa, di persone che sono distanti dagli eventi e che non possono che osservarli come si osserva lo scorrere delle acque d’un fiume.

Prendiamone atto: l’odio per la polizia è, in realtà, la manifestazione di un odio più grande; i rivoltosi percepiscono il controllo razzista come l’immediata espressione di una società che li relega all’angolo, che li esclude dal godimento della ricchezza, che li tratta da reietti.

La rivolta è il loro modo di esprimersi. Sono loro stessi che scelgono il modo di apparire sulla scena, determinando in autonomia le forme della loro lotta. Loro è la lotta, loro è la forma di questa lotta; nostro può essere solo lo sguardo curioso e interessato.

Dal mio punto di osservazione, che è certo protetto, almeno rispetto al loro, io posso solo auspicarmi che la rivolta diventi qualcosa di ancora più grande, che ci coinvolga tutti; qualcosa che metta in atto il superamento del sistema che rende quelle persone degli esclusi e che ricerchi le forme di organizzazione sociale dove la loro integrazione sia reale: una forma di libertà nell’uguaglianza. Mi auspico una rivolta più grande, ecco.

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Interessanti derive del linguaggio:

la polizia reprime le manifestazioni di piazza a Hong Kong (violente) e Trump minaccia sanzioni (alla Cina);

la polizia uccide un “nero” e quindi reprime le manifestazioni di piazza a Minneapolis (violente) e Trump minaccia di sparare (ai manifestanti).

Trump è una minaccia, insomma.

La stessa deriva la si può notare sul “clima” creato dal modo di impostare i titoli e di riferire le notizie da parte dei principali giornali italiani:

nel caso di Hong Kong, mettono in rilievo la repressione contro le aspirazioni democratiche;

in quello di Minneapolis, invece, mettono in rilievo gli eccessi della rivolta contro la polizia di uno stato democratico.

Le dinamiche del linguaggio, in fondo, così come ci insegnò Ferruccio Rossi-Landi, indicano sempre un’ideologia e una visione del mondo. Ogni discorso è un discorso ideologico.

* da Facebook

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