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Mobilitazioni nella scuola. Un primo bilancio

Una riflessione sulle mobilitazioni per la scuola. La richiesta di risorse è il punto principale. Ma queste possono arrivare dal Recovery Fund? Abbiamo alternative alla lotta sociale? https://www.citystrike.org/…

È passato poco meno di un mese dalla riapertura, parziale e a singhiozzo, della scuola e delle università. È quindi possibile fare, innanzitutto, un bilancio di ciò che si è visto e ragionare, in termini reali e non di propaganda, su ciò che potrà avvenire nei prossimi mesi.

Abbiamo ripetuto tante volte che l’estate è stato il tempo della propaganda del governo sulla assoluta necessità di tornare a scuola, sulle assunzioni del personale (che non ci sono state) sugli spazi aggiuntivi per le aule che nessuno ha ancora visto.

Una martellante campagna di bugie a cui nessuno ha potuto o saputo rispondere, culminata con i 160 mila nuovi docenti annunciati, con sprezzo del ridicolo, dal Presidente del consiglio Conte in una conferenza stampa monotematica.

La questione degli spazi aggiuntivi per garantire la sicurezza sanitaria è stata invece gestita lasciando l’iniziativa ai singoli dirigenti in accordo con le autorità locali. Tutto questo, che avrebbe avuto una logica di fondo legata alla reale presenza sul territorio dei soggetti coinvolti, si è rivelato un inganno nel momento in cui il Governo non ha destinato fondi, non ha chiesto alle realtà locali di riferire almeno alcune informazioni di base quali l’effettiva necessità di spazi aggiuntivi, quali spazi erano realisticamente recuperabili e quanto sarebbe costato renderli agibili.

La questione delle graduatorie dei docenti precari è stata quindi la classica ciliegina su una torta che si è rivelata da subito indigesta, non solo per il personale della scuola, ma anche per gli studenti e le studentesse come per le famiglie coinvolte.

A tutto questo era necessario rispondere e ci abbiamo provato. A Genova anche con forza e dimostrando capacità di mobilitazione a cominciare con gli scioperi del 24 e 25 settembre.

Scioperi ovviamente non facili, per certi versi con caratteri che molti ritenevano “divisivi” e “inopportuni” visto la delicatezza del momento.

Eppure, nonostante alcune difficoltà iniziali, la riuscita è stata evidente saldando le rivendicazioni di chi nella scuola ci lavora direttamente assunto dallo Stato (dal personale docente e amministrativo di ruolo e precario) con quelle di chi nella scuola ci lavora, assunto da enti esternalizzati (la manifestazione con sciopero degli OSE organizzata da USB il 24 settembre a cui abbiamo dato un contributo), fino a coloro che della scuola usufruiscono con la partecipazione degli studenti e con il sostegno della parte più sensibile dei genitori.

La creazione di questo gruppo che tiene unite queste rivendicazioni è quindi una opportunità che abbiamo realizzato, messo in campo, provato nel periodo della mobilitazione e che oggi non possiamo permetterci di disperdere.

Oggi ci troviamo comunque in un momento di riflessione, in cui dobbiamo scegliere come continuare, con quali parole d’ordine rilanciare. Occorre quindi provare a focalizzare bene il problema per capire quali strade siano praticabili e quali invece risultino poco producenti.

Innanzitutto va segnalato che, anche quando può sembrare una forzatura, la lotta sociale ed economica, lo sciopero e le manifestazioni di sostegno sono un elemento da cui non si può prescindere. La recente notizia che sparirà dal cosiddetto contratto dei “docenti Covid” la clausola di licenziamento, in caso di nuovo blocco delle attività, sarebbe stata impossibile se non ci fosse stata una forte e partecipata mobilitazione sociale con all’interno questa semplice richiesta di civiltà.

Ciò comporta un effetto-domino per il quale il personale si mobilita su questa parola d’ordine, una parte dell’opinione pubblica viene a conoscenza dell’insopportabilità di alcune scelte, molti docenti rifiutano di sottostare ai ricatti non sottoscrivendo tali odiosi contratti. Il tutto capendo di non essere soli ma di avere compagni e solidali capaci di dargli anche un minimo ma importante sostegno.

A oggi non è molto, ma non è neppure nulla. Questo è ciò che riusciamo a mettere in campo, dovremo fare di più, ma per il momento facciamolo e continuiamo a farlo.

Il momento di riflessione a cui siamo chiamati però riguarda una seconda importante questione: come richiedere più risorse per l’istruzione e il diritto allo studio.

Su questo incombe l’idea, di per sé sensata e per certi versi praticabile, per cui le risorse potrebbero arrivare dai prestiti europei, dal Recovery Fund e dalle altre forme di intervento di cui si è parlato molto in estate.

Su questo occorre fare, a nostro parere, chiarezza. I numeri crediamo possano aiutare.

Per quel che ne sappiamo i fondi, descritti in pompa magna come un vero cambio di paradigma verso la creazione di una fantomatica Europa Sociale, sono soprattutto prestiti, peraltro strutturati secondo schemi complessi.

Andiamo per ordine.

Gli organi di stampa parlano di “fino a” 209 miliardi. Dal momento che le parole sono importanti, quel “fino a” dovrebbe già accendere qualche campanello d’allarme.

Di questi 209 miliardi, 82 sarebbero erogati dalla UE come sussidi a fondo perduto mentre 127 sarebbero erogati come prestiti.

La grancassa mediatica si sofferma in particolare sugli 82 miliardi di sussidi a fondo perduto. Il problema di questi 82 miliardi è che non sono realmente a fondo perduto, in quanto frutto dell’indebitamento della UE con i mercati.

Attualmente si stima che l’Italia dovrà contribuire al ripianamento del debito contratto dalla UE per una quota di 55 miliardi spalmati in un trentennio (dal 2028 al 2057).

In breve, oggi entrano 82 miliardi ma nel lungo periodo ne usciranno 55.Il saldo sarà quindi positivo per soli 27 miliardi, appena 1/3 della cifra sbandierata da giornali e televisioni.

Per altro nel quadro del bilancio pluriennale 2021-2027, in cui è contabilizzato il Recovery Fund, è documentata una ingente riduzione di altre voci di spesa del bilancio UE, in particolare:

i fondi per la salute (da 9,4 a 1,7 miliardi);

i fondi per la ricerca scientifica (da 94,4 a 80,9 miliardi);

i fondi per la “transizione verde” (da 40 a 17,5 miliardi);

Quindi parte delle risorse del Recovery Fund, in un abile gioco delle 3 carte, saranno sottratte da altre voci di spesa della UE, peraltro in materie che da sempre costituiscono la base della propaganda che descrive l’Unione Europea come costruzione progressiva per i diritti e gli standard di vita delle popolazioni del continente.

Per quanto riguarda gli altri 127 miliardi, come già detto, si tratta di debiti di cui i media mestamente sottolineano l’unica caratteristica positiva: il tasso di interesse ridotto rispetto al debito contratto comunemente dallo Stato italiano sui mercati finanziari.

Anche in questo caso viene tuttavia celato un dato importante: questa fetta di debiti godrà di una speciale priorità nella restituzione rispetto a tutto il resto del debito nazionale.

Questa condizione particolare costituisce il lucchetto con cui viene chiusa la gabbia popolata di condizioni da soddisfare per sbloccare la rateizzazione dei soldi stanziati per l’Italia dal Recovery Fund.

Inoltre, in un perfetto delirio di fantozziana burocrazia, le istituzioni UE (la Commissione Europea e l’“informale” Consiglio Europeo) hanno ben pensato di condizionare l’erogazione dei fondi sulla base della valutazione dei progetti presentati dai singoli paesi che intendono usufruire del Recovery Fund.

Tali progetti, a loro volta, sono vincolati a precise aree tematiche – nel merito delle quali è chiaro l’intento di indirizzarli verso una precisa ristrutturazione produttiva e sociale del continente – e una volta approvati prevedono una costante monitorizzazione da parte della UE circa il raggiungimento dei risultati parziali attesi e del loro apporto al contesto macroeconomico del paese che non deve sottrarsi dalla famigerata disciplina di bilancio, l’austerità.

In sostanza, si tratterebbe della medesima dinamica dei “memorandum” greci che hanno devastato il paese ellenico. A cambiare è solo il nome del processo e parte degli attori coinvolti; in questo caso la UE farebbe tutto in casa, senza le timide interferenze dell’FMI.

Data la complessità, tutto ciò non è molto chiaro tra di noi, mentre ai padroni invece è chiarissimo. Non a caso Confindustria, tramite il proprio megafono Bonomi, si spreca nel denunciare l’insostenibilità di quota 100 per i pensionati e nella diffamazione verso i percettori del reddito di cittadinanza (tra l’altro due provvedimenti che andrebbero considerati per lo meno insufficienti e ricattatori), spiegandoci che la priorità non deve essere quella della distribuzione del reddito o dell’aumento del welfare.

Recentemente, in un dettagliato articolo, il compagno Antonio Mazzeo che, come sapete, è impegnato come attivista nel contrasto alla guerra, all’imperialismo e contro l’apparato industriale-militare, ha documentato come dietro la retorica sulla necessità di investire in digitalizzazione e green economy – due tra le materie oggetto di presentazione dei “progetti” sopra citati – si nascondano già piani precisi e protocollati che prevedono decine di miliardi in euro di finanziamento a iniziative in ambito bellico, sulla sicurezza e sulla prevenzione e controllo.

Come potete ben immaginare, con il termine “sicurezza” (security), in questo caso, si intende una cosa ben diversa dalla sicurezza sanitaria o sociale (safety). Di tutto ciò a noi cosa rimarrà?

L’impressione è che i finanziamenti che in qualche modo, nel medio termine, arriveranno non verranno investiti nella scuola, nell’istruzione o nella salute, avranno ben altre destinazioni.

Se va bene cadrà qualche briciola, ma non andrà in spazi per nuove aule o presidi ospedalieri, non andrà in assunzioni di personale o in internalizzazioni, non andrà in progetti di medicina pubblica territoriale.

Chiudiamo con un auspicio. Non ci piace tantissimo il termine e lo slogan “priorità alla scuola”, ma lo abbiamo usato perché rendeva immediata l’idea che pretendevamo rispetto e risorse per l’istruzione. Le dobbiamo continuare a chiedere ma dobbiamo avere chiaro che queste risorse non arriveranno da nessuno se non le strapperemo con le unghie e con i denti.

Dobbiamo anche sapere, in questa fase, ciò che abbiamo provato a spiegare altre volte: la scuola e l’istruzione sono uno degli ambiti che, per loro natura, ci possono permettere di parlare con le famiglie, con i lavoratori mettendoci a contatto con tutte le contraddizioni che ci tocca subire.

Oggi vi è un rischio concreto a cui dobbiamo sottrarci: non si costruisce una istruzione diversa e democratica se non si creano condizioni in cui non si è costretti a dividersi una mancia caduta dall’alto. Non si barattano soldi per un settore se si colpisce il diritto ad andare in pensione, se non si finanzia anche la sanità, se non si finanziano lavori degni e stabili.

Si costruisce una scuola e una società più giuste se tutti i settori colpiti e in difficoltà reclamano insieme la possibilità di usufruire del diritto all’istruzione, alla sicurezza sociale, al lavoro degno e al welfare pubblico. La “priorità alla scuola” deve diventare la priorità al futuro delle classi più deboli, degli svantaggiati, dei subalterni.

Senza illusioni continuando la battaglia quotidiana iniziata il 24 e il 25 settembre. Uniti vinciamo, divisi cadiamo.

L’alleanza sociale in fieri, che è la caratteristica di questa assemblea e il buon inizio del nostro lavoro ci dicono soprattutto questo, in fondo. Lavoriamoci sopra.

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