Più del 78% dei cittadini cileni ha votato questa domenica per un cambio della Costituzione del 1980 ed una percentuale leggermente più grande si è espressa affinché questa venga redatta da un organismo costituente composto da 155 membri integralmente eletti dai cittadini l’11 aprile prossimo.
Il doppio quesito referendario del 25 ottobre infatti chiedeva se i cittadini volessero cambiare la carta costituzionale redatta durante la dittatura di Pinochet o meno – poco più di un quinto si è espresso per il suo mantenimento – e se l’organismo preposto al suo cambiamento (la Convenzione Costituente) dovesse essere “misto”, cioè composto per metà da membri del parlamento e la parte restante da cittadini (per un totale di 172 membri) – un quinto dei votanti si è espresso in tal senso – o solo da membri eletti dai cittadini.
Il numero dei votanti – nonostante le difficoltà dovute all’emergenza pandemica che ha colpito duramente il Paese – è stato di oltre il 50%, una netta inversione di tendenza rispetto l’elevato astensionismo che aveva caratterizzato le elezioni in Cile dalla fine del voto obbligatorio nel 2012.
La “disaffezione per il voto” aveva raggiunto il picco alle amministrative del 2016 quando poco più di un avente diritto su tre si era recato alle urne, segnale di un distacco evidente tra la popolazione – in particolare tra le fasce giovanili – e l’establishment politico che si è alternato al governo dalla fine “formale” della dittatura trenta anni fa.
La Convenzione – che sarà composta obbligatoriamente per circa metà da donne – verrà eletta l’11 aprile ed inizierà i suoi lavori due settimane dopo, avendo a disposizione 9 mesi (con una possibile proroga di altri tre mesi) per redigere il nuovo testo costituzionale, i cui singoli articoli verranno approvati con una maggioranza di due/terzi dai membri della Convenzione. Il testo dovrà essere pronto all’inizio del luglio 2022 per essere sottoposto ad un nuovo plebiscito a carattere obbligatorio.
L’accordo per un referendum sulla Costituzione era stato raggiunto la notte tra il 14 ed il 15 novembre scorso su spinta di una fortissima pressione popolare dopo circa un mese di mobilitazioni – duramente represse – che non avevano eguali nella storia cilena del dopo-Pinochet e che sarebbero poi continuate nei mesi a venire.
Quel composito movimento chiedeva a gran voce un cambiamento costituzionale, considerando che nella Costituzione in vigore erano cristallizzate le politiche neo-liberiste – oltreché autoritarie e patriarcali – che per prime a livello mondiale erano state sperimentate in Cile dopo il golpe che destituì Salvador Allende nel 1973.
Quel testo costituiva di fatto una “gabbia” che annichiliva la possibilità di una vera inversione di tendenza dall’agenda a suo tempo dettata dai Chicago Boys e successivamente adottata da Reagan negli Stati Uniti e dalla Thatcher in Gran Bretagna.
Quella costituzione era poi blindata da meccanismi che ne minavano la sua riformabilità, come la maggioranza di due/terzi o tre/quinti dei deputati delle due Camere (Congresso o Senato) obbligatoria per cambiarne i singoli articoli ed il peso della Corte Costituzionale – di cui i membri sono designati dal presidente cileno, il Congresso e la Corte Suprema – garante della continuità delle politiche economiche varate da Pinochet.
La Costituzione del 1980 – che aveva sostituito quella del 1925 – aveva avuto come principale architetto l’ideologo del regime Jaime Guzmán membro del partito pinochetista UDI, ucciso poi nel 1991 dal Frente Patriótico Manuel Rodriguez. Un percorso inverso rispetto a quello voluto dal presidente Salvador Allende: “Che il popolo capisca per la prima volta che non è dall’alto, ma dalle radici stesse della propria convinzione che deve nascere la Carta fondamentale, che gli darà la sua esistenza come popolo degno, indipendente e sovrano”.
Invece, la Costituzione del 1980 aveva aperto la possibilità ai privati di gestire parti rilevanti di settori precedentemente pubblici, con una versione “sussidiaria” dello Stato che ne azzerava le funzioni in una serie di campi: dall’istruzione alla sanità fino alla tutela pensionistica.
Questo testo aveva fornito l’impalcatura dopo le già importanti “contro-riforme” di stampo neo-liberista – tra cui quella del lavoro che aboliva di fatto la contrattazione collettiva – per lo stravolgimento del sistema previdenziale che ruotava intorno a due perni: il divieto di pensionamenti anticipati, la cancellazione del sistema di pensioni pubbliche con la costituzione di fondi pensione affidata ad aziende private, le AFP. Una contro-riforma che fece scuola e che venne poi adottata in circa 30 Paesi.
Questo doppio voto referendario costituisce un chiaro segno di delegittimazione delle forze politiche che si sono alternate al potere da 30 anni a questa parte e che si sono dimostrate incapaci di abbandonare il solco delle politiche liberiste impostesi con Pinochet, oltre che un plebiscito contro il contestato presidente Sebastian Piñera.
Questo voto apre la strada per un possibile cambiamento radicale in quei campi della vita sociale (scuola, sanità, previdenza pensionistica e risorse) tuttora privatizzati e per l’acquisizione delle garanzie complessive per quei soggetti fino a qui penalizzati dalla carta costituzionale (in particolare donne e popoli nativi) protagonisti ben prima dell’autunno scorso di importanti mobilitazioni.
Questo risultato è un ennesimo segnale dopo le recenti elezioni boliviane e quelle argentine di una possibile inversione di tendenza nel continente, che negli ultimi anni aveva visto un violento contrattacco da parte delle forze delle oligarchie prone all’imperialismo, in una feroce lotta di classe a livello continentale.
Come Rete dei Comunisti salutiamo questo risultato referendario come un oggettivo passo in avanti per i popoli del Cile, frutto del coraggio politico di un movimento che sta scuotendo alla base il Paese, ed un risultato importante per quelle forze politiche – tra cui il Partito Comunista Cileno – che si sono impegnate in fondo per questo storico obiettivo.
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