Il 20 novembre 1945, 75 anni fa, si apriva il processo di Norimberga: per la prima volta nella storia l’intero «corpo politico e sociale», che rappresentava l’ideologia di un intero movimento, e non solo singole personalità, era chiamato a giudizio per rispondere dei crimini commessi.
Sebbene anche dopo la Prima guerra mondiale si fossero svolte ampie discussioni in merito alle misure da adottare nei confronti dei crimini compiuti in guerra, fu solo dopo il secondo conflitto mondiale che nacque un diritto penale internazionale in grado di punire sistematicamente crimini di tale gravità, nonché prevenirli e scoraggiarli.
I crimini perpetrati durante la Seconda guerra mondiali spinsero giuristi, politici e intellettuali ad interrogarsi sulla capacità e sulla forza del diritto di impedire il perpetrarsi tali reati. L’opinione pubblica, sconvolta dagli eventi del secondo conflitto mondiale, spalleggiava e sosteneva una tale visione del diritto. Simbolo di questo atteggiamento fu il processo di Norimberga.
La corte si impegnò ad ampliare la dimensione punitiva attraverso l’istituzione di nuove giurisdizioni, di cui di grandissima importanza fu quello di «crimini contro l’umanità» e «crimini contro la pace» definizione che nacque per la prima volta nell’ambito del processo di Norimberga.
I crimini nazisti furono giudicati basandosi su un corpus giuridico che, adottando i principi e le norme già emanate negli anni passati, fu creato e sviluppato a guerra finita, dopo che questi reati furono compiuti. Infatti, l’avvocato di Göring, Stahmer, presentò, a nome dell’intera difesa, una mozione che insisteva sul fatto che fino a quel momento non era stato redatto nessun trattato internazionale che considerasse la guerra come un crimine. Quindi, secondo la difesa, in virtù del principio dell’irretroattività della legge il processo non poteva essere svolto.
Questa motivazione, però, si scontrò contro un principio enunciato dalla corte, il quale asseriva che né la difesa, né l’accusa potevano contestare la legittimità del processo.
Il processo accusatorio si basò su quella che in quel momento era la concezione generale in merito alla giustizia civile e sociale. I principi su cosa fosse deprecabile o meno erano già stati ampiamente elencati dai trattati precedenti, nonché comunemente accettati dall’opinione pubblica. Quello che mancava era una legislazione internazionale. L’opera del tribunale deve essere vista come atto della creazione di questo diritto internazionale.
La retroattività fu ampiamente utilizzata dall’accusa, ma si può parlare di retroattività parziale, in quanto le leggi “create” non andavano contro ai principi e alle norme emanate in precedenza, semmai le ampliavano.
Le accuse contro i nazisti si articolavano in quattro punti: crimini contro la pace, guerra d’aggressione, crimini contro il diritto di guerra e delitti contro l’umanità che furono raccolte all’interno della Carta di Norimberga.
Lo sterminio degli ebrei non fu trattato a parte. Non fu creato nessun punto d’accusa specifico, ma rientrò nell’accusa di crimini contro l’umanità. L’opinione pubblica internazionale non aveva ancora una percezione della specificità del crimine nazista contro il popolo ebraico. Le informazioni provenienti dai campi di concentramento di Buchenwald e di Mauthausen avevano fatto in modo che fosse noto il trattamento riservato agli ebrei, ma comunque non si era ancora compresa la reale portata della soluzione finale.
In conclusione di questo ricordo vale ancora la pena di riportare quanto sottolinea oggi, in un’intervista lo storico William Shawcross, figlio del capo del Collegio d’Accusa britannico al processo, sulla mancata “lezione della storia” considerato che abbiamo assistito e stiamo assistendo al prosieguo della logica del genocidio.
Ed è anche il caso di riportare il giudizio formulato da Piero Calamandrei sull’esito del processo stesso.
Sulle pagine della giovane rivista «Il Ponte», nel 1946, commentando le sentenze capitali emesse dalla corte di Norimberga, Piero Calamandrei fissa alcuni dei principi che da lì in avanti saranno costantemente richiamati con riferimento agli obiettivi e ai limiti della giustizia penale internazionale per decretare la preminenza delle esigenze di livello sostanziale rispetto a qualunque ostacolo di ordine strettamente formale:
“Qualche anima bennata si sente offesa e impietosita dinanzi a queste forche e a questi giustiziati. […] Come si è potuto condannarli se non c’erano leggi prestabilite, né pene comminate, né garanzia di giudici imparziali? Quello che lo Stato permette, o addirittura premia, non può essere delitto. Torturare, stuprare, evirare, adoprare uomini e donne come cavie da vivisezione, cremarli vivi per estrarne utili sostanze chimiche, tutto questo era fatto per la più Grande Germania […]. Chi obbediva a quelle leggi, compieva per la nazione il suo dovere di cittadino.
Secondo Calamandrei, non sarebbe stato possibile, di fronte a «milioni di martirizzati innocenti» adottare cautele che avrebbero trasformato la legge in sterile legalismo. Esistevano, al contrario, imperative esigenze morali che rinviavano alle leggi dell’umanità, le stesse cui Antigone chiedeva si prestasse ascolto. Leggi non scritte che «hanno cominciato ad affermarsi, nella funebre aula di Norimberga, come vere leggi sanzionate: l’“umanità” da vaga espressione retorica, ha dato segno di voler diventare un ordinamento giuridico.
Né sarebbe potuto servire a frenare tale approccio il pensiero di una giustizia amministrata dai vincitori, una giustizia disposta a dimenticare la bomba atomica e i bombardamenti a tappeto sulle città tedesche, giacché Norimberga aveva dimostrato che la spietata inumanità è sempre esposta al castigo, qualunque sia il campo da cui proviene.”
P. Calamandrei, Le leggi di Antigone, «Il Ponte», II, novembre1946, p.933.
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