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Pareggio (di bilancio)? No, sconfitta!

La rubrica degli “interventi” accoglie, come nel titolo, contributi provenienti dal altre fonti, visioni, aree politiche. Ma che risultano interessanti o importanti per segnalare o comprendere le dinamiche del reale. Non è necessario condividerne ogni virgola per sottoporli alla lettura.

In questo eccellente scritto di Gianluca Cicinelli, per esempio, persiste una residua illusione nella capacità della “sinistra europea” di fare ammenda per la propria pluridecennale sbornia governista e dunque neoliberista, andando a “pescare nuovi soggetti politici all’interno dei movimenti di lotta che già dieci anni fa avevano previsto il collasso del sistema“. Da quel che vediamo tutti i giorni, proprio questo è quel che viene escluso con fermezza.

Speranza a parte, però, qui si coglie la novità del tempo nel fallimento di una sistema – e di un “pensiero unico” – che ha dominato negli ultimi 30 anni portando le popolazioni d’Europa e dell’Occidente tutto sull’orlo del baratro.

The times they are changing, astenersi da commenti non pensati…

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Ed eccoli lì gli scatenati trotzkisti, i pasdaran dei centri sociali, i no tutto, i nemici del cielo liberista, i comunisti superstiti all’attacco del sistema che contestano l’idolatria del pareggio di bilancio: «Il freno al debito non si può rispettare nemmeno per gli anni a venire, è ragionevole stabilizzare le spese sociali fino al 2023 ed evitare un aumento delle tasse».

Aspetta però: la dichiarazione è di Helge Braun, fedelissimo di Angela Merkel, Cdu, democratico-cristiani tedeschi, responsabile della Cancelleria. Chissà, forse guardando meglio potremo riconoscerlo in vecchi filmati del 1917 a 24 fotogrammi per secondo, dal pulpito di un comizio di strada mentre incita i bolscevichi a Mosca, muovendo seccamente le braccia per invitare alla presa del Palazzo d’Inverno.

Della fine del mito del pareggio di bilancio non ne parlano soltanto i politici disgraziati di un’Italia disgraziata, da sempre nel ruolo spiacevole di questuante alla corte dei ricchi. Ne parlano in un Paese ricco come la Germania, spiazzato anch’esso dalla crisi economica generata dal covid, veloci a capire che persino per chi ritiene il Capitalismo una fede rafforzata dal fallimento di altri sistemi è venuta l’ora di rivedere i meccanismi del suo funzionamento.

Farebbe ridere, se non fosse tragico, questo cambio di visione a Davos, dove è andato in scena il World Economic Forum e la creme de la creme del capitalismo mondiale ha cercato di tappare le falle del sistema liberista accentuate dal covid. Naturalmente a spartire il bottino con noi miserabili non ci pensano proprio, ma il segnale è importante.

Il pareggio di bilancio, con cui i tecnocrati di Bruxelles ci hanno tenuto in ostaggio per due decenni, significa che nel corso di un anno le spese dello Stato devono essere uguali alle entrate conseguite, evitando situazioni di deficit che comporterebbero indebitamento.

I paesi aderenti alla Ue sono stati costretti per anni a tagliare tutte le spese sociali per non “sforare” oltre il 3%, pena l’esclusione dall’Unione stessa. Essendo il nostro e gli altri Paesi indebitati fino al collo, per raggiungere il pareggio di bilancio, fittizio oltretutto, negli anni sono state sempre più tagliate le spese sociali, l’assistenza, l’istruzione, la sanità, la giustizia, la ricerca e molto altro.

Dimenticavo: le spese militari, al contrario, sono costantemente cresciute. E’ l’Europa che ce lo chiede, la frase coniata per giustificare i tagli, resterà negli annali della storia come ciò che ha fatto diventare odiosa la Ue ai cittadini e prodotto i fenomeni più retrivi di populismo e anti europeismo con cui siamo costretti a convivere nel nostro tempo.

Persino il presidente francese Emmanuel Macron, “banchiere d’affari” prima di rimediare questo lavoretto da statista, uno tra i più estatici ammiratori del liberismo, ha tuonato dal palco di Davos chiedendo umanità nell’economia e sostenendo che il capitalismo non funzionerà più bene finché non si mette mano alle crescenti diseguaglianze.

Così come un’altra insospettabile creatura del neoliberismo, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, estende la sua critica al contributo che i social hanno dato alla creazione di piattaforme di diseguaglianza ed è arrivata ad affermare che «il modello di business delle piattaforme online impatta non solo la libera e leale concorrenza, ma le nostre democrazie».

Saremmo pazzi naturalmente a prendere per oro colato le loro parole.

Loro cercano riparazioni mentre il mondo ha bisogno di essere completamente rigenerato. Loro vedono soltanto adesso i danni del capitalismo, nel momento in cui si manifestano i sintomi nelle ricche città e nazioni occidentali, dove le persone nonostante il clima autoritario diffuso votano ancora, facendo finta d’ignorare che hanno comportato la devastazione di enormi aree del mondo, lontane dagli occhi della stampa e dei benpensanti: non c’è niente di riformabile in chi ritiene le morti per fame e malattie, già scomparse da questa parte del pianeta, come un danno collaterale ma sopportabile del sistema capitalistico nell’altra parte del mondo.

Però è indubbio che siamo in una congiuntura storica inimmaginabile fino a due anni fa.

Adesso che è chiara anche a loro l’insostenibilità di un sistema ragionieristico di guida dello Stato, manca purtroppo dall’altra parte una visione, mancano i partiti socialisti europei a dirla tutta, che ricollochi la lotta politica nella sua dimensione di servizio all’umanità.

Al di fuori delle organizzazioni che in questi anni hanno tenuto alta l’idea che un altro mondo è possibile, a cominciare da quelle solidali con gli ultimi a quelle ambientaliste contro i mutamenti climatici, posizioni che chiamano in causa l’intero modo di produzione, manca infatti un modo alternativo da percorrere per approfittare della congiuntura.

E non sarebbe una follia che quel che rimane della sinistra europea cominciasse a pescare nuovi soggetti politici all’interno dei movimenti di lotta che già dieci anni fa avevano previsto il collasso del sistema dimostrandosi molto più concreti e analitici degli economisti schiacciati sulle posizioni delle banche centrali.

* da La Bottega del Barbieri

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