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La lotta di classe travolge nuovamente il governo indiano

Martedì 26 gennaio gli agricoltori indiani che da fine novembre erano “accampati” ai confini della capitale, sono entrati in città per la prevista giornata di protesta denominata Farmers Public Day Parade, il giorno in cui si festeggia – dal 1950 – l’entrata in vigore della costituzione repubblicana dell’India indipendente.

Una marea umana con trattori, pick-up e vetture ha invaso la città, talvolta sfondando le barriere che da tempo la polizia aveva posto per impedire ai più di 200 mila contadini che stazionavano nei dintorni di raggiungere il centro: ma dalle principali arterie alle porte della capitale (Gazipur, Signghu e Tikri) sono entrati a Nuova Delhi.

È l’ennesima tappa di una lotta contro il “pacchetto legislativo” che il premier indiano Narenda Modi ed il partito di maggioranza – il BJP – ha voluto imporre al Parlamento a settembre, by-passando una vera discussione parlamentare per questo settore che resta strategico, per un paese di un miliardo e trecentomila abitanti. In India, circa il 60% della popolazione vive di agricoltura, la quale per più dell’80% è praticata da piccoli proprietari terrieri che posseggono solo qualche ettaro di terra.

A fine giornata i manifestanti, che avevano già dato prova della propria forza l’8 dicembre, sono tornati ai propri accampamenti ai bordi della capitale, decisi a continuare la propria lotta con una marcia a piedi verso il Parlamento lunedì 1 febbraio prossimo.

Il modus operandi adottato da Modi ha portato, in piena pandemia, anche alla riforma delle leggi riguardanti il mondo del lavoro, qualche giorno dopo quelle sull’agricoltura. Misure legislative contro cui hanno scioperato il 26 novembre circa 250 milioni di lavoratori, forse la più partecipata giornata di astensione del lavoro, a livello mondiale, di sempre.

Gli scioperanti, allora, hanno apertamente solidarizzato con gli agricoltori che in quel momento avevano confinato la propria opposizione negli Stati bastione della protesta, come il Punjab e l’Haryana. Qui sul 3% del territorio totale dell’India si produce circa la metà del surplus di riso e grano dell’intera nazione.

Le riforme di Modi si muovono nel solco della politica sposata dall’India dall’inizio anni Novanta con l’avvento della globalizzazione neo-liberista; scelte che hanno aggravato la condizione dei contadini, già minata dalla mancata attuazione di una vera riforma agraria dopo l’Indipendenza.

Il movimento è espressione di una “onda lunga” di svariate mobilitazioni contadine di massa che da un paio di anni – almeno dal 2018 – caratterizzano il paese.

In questi anni la condizione di chi coltiva la terra è notevolmente peggiorata, con 26 contadini al giorno che si tolgono la vita – più di 10 mila nel 2019 – a causa dell’indebitamento, dello scarso raccolto, della siccità e dell’indifferenza mostrata dalle autorità statali.

Il mix dei lasciti negativi di una agricoltura monoculturale intensiva a base di fertilizzanti e pesticidi, su piccoli appezzamenti agricoli ereditata dalla “Rivoluzione Verde”, l’emergenza climatica e il prendere piede delle corporations alimentari, minano sempre di più la vita di chi vive dei frutti della terra, facendo crescere una rabbia che in questi anni è tracimata grazie ad un sapiente lavoro organizzativo.

Le tre leggi approvate, di cui il movimento chiede semplicemente il ritiro, dopo una decina di incontri infruttuosi tra le parti, stravolgono l’attuale sistema agricolo in cui lo Stato svolge una funzione essenziale. Questo sistema, per quanto deficitario, ha assicurato comunque il raggiungimento dell’autonomia alimentare all’India dopo l’indipendenza, ed è basato sulla produzione ad un prezzo concordato con l’autorità pubblica di alcune derrate alimentari e la loro vendita allo Stato, con un sistema di piccoli intermediari.

Una politica agricola che permette agli agricoltori di sopravvivere – anche se in maniera stentata – ed una ridistribuzione dei prodotti essenziali alla popolazione – che per i ¾ soffre di carenze nutrizionali – a prezzi calmierati.

Questa gestione ha impedito di fatto quell’ulteriore penetrazione dei rapporti capitalistici nelle campagne, di cui si gioverebbe invece la filiera dell’agro-business, in mano prevalentemente a due miliardari: Ambadi e Andani.

Se le tre leggi non venissero stralciate, le corporations potrebbero “liberamente” speculare sui prezzi e quindi costringere i contadini a vendere i loro possedimenti e condannare alla fame una fetta più consistente della popolazione.

Una situazione di cui sono ben consce le organizzazioni contadine, considerato che una riforma simile nello Stato del Bihar – 15 anni fa – ha portato alla scomparsa dell’87% dei centri di vendita pubblici (i “mandis”), presenti prima del cambio legislativo, ed i contadini a dovere vendere 100 kilogrammi di riso a 16$ invece che ai 25$ pagati ai contadini del Punjab, dove permane ancora la gestione pubblica.

I demoni del mercato non porteranno certo ad un miglioramento del settore ed a una svolta “green”.

È chiaro che l’élite indiana – di cui l’attuale esecutivo, al suo secondo mandato, è piena espressione – vuole continuare a lanciarsi nella competizione internazionale, comprimendo ulteriormente gli standard di vita degli operai e dei contadini del proprio paese, continuando quell’accumulazione per espropriazione che ne ha caratterizzato fin qui l’operato.

Come Rete dei Comunisti esprimiamo la nostra solidarietà a questo movimento, alle organizzazioni sindacali indiane affiliate alla Federazione Sindacale Mondiale (FSM-WFTU) che sostengono questa lotta e alle formazioni marxiste indiane che la supportano.

Sono il segno tangibile che le lancette della storia hanno ripreso a girare. Una parte importante della popolazione mondiale preferisce non soccombere ai diktat imposti dalla crisi del Modo di Produzione Capitalista e lottare per la propria EMANCIPAZIONE.

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