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Cuba. Due parole su un’isola e sulla democrazia

Nel 1933 il Presidente democratico degli Stati Uniti d’America si accorse di avere dei vicini. L’America latina l’avevano sempre pensata come un grande cortile di casa ma, adesso, dopo la crisi del ‘29 e le sue conseguenze a sud dello Zio Sam, col ceto dei latifondisti pronti a supportare politiche e dittatori di destra, l’occasione dovette apparirgli ghiotta, a lui e a tutte le Imprese del capitalismo nordamericano.

Il “buon vicinato” della cosiddetta diplomazia del dollaro fu, infatti, il sostegno politico ed economico che gli Stati Uniti offrivano alle dittature in Brasile, in Cile, a Cuba e in Nicaragua, in cambio dello sfruttamento sistematico ed esclusivo delle risorse agricole e minerarie di quei paesi.

I rapporti di dipendenza di Cuba dagli Stati Uniti, inoltre, erano particolarmente intensi sin dai tempi della guerra ispano-americana del 1898; in conseguenza del conflitto l’isola ottenne, sì, l’indipendenza ma diventò – nei fatti – un protettorato statunitense. 

Così, quando Fulgenzio Batista prese il potere a Cuba nel 1933, volle subito diventare uno dei vicini più amati dal Presidente democratico Roosevelt e gli cedette l’intero controllo delle miniere di nichel e dei trasporti, trasformando, inoltre, L’Avana in una delle capitali mondiali del turismo di lusso, del gioco d’azzardo e della prostituzione.

Beh, che vogliamo, all’interno del Modo di Produzione Capitalista ogni cosa ha il suo prezzo e “la democrazia” – a Cuba – stava fissando il suo.

In una lettera ad un amico che gli chiedeva di schierarsi, durante la Prima guerra mondiale, contro gli Imperi centrali per favorire così la nascita della democrazia, l’ungherese Lukacs pare che abbia risposto: “ma poi chi ci libera dalla democrazia?”.

Quesito non nuovo. Nella democraticissima Atene del V secolo a.C., quattrocentomila schiavi sorreggevano l’architrave di un potere che escludeva anche le donne e i “barbari”. Platone lo aveva capito molto bene e quando, nell’anno 399 a.C., dopo la restaurazione della democrazia, si svolsero i principali processi scaturiti dalla guerra civile e la condanna di Socrate, si rifugiò dapprima a Megara, poi altrove.

Lì, Platone capisce che il modello politico – per eccellenza – della sua città è irriformabile e cerca, allora, nuove strade; anche perché, lo stesso Platone, farà l’esperienza più estrema per i Greci del suo tempo, proprio quella della schiavitù. 

E poi c’è la Rivoluzione francese. Nel film di Gillo Pontecorvo La battaglia di Algeri (1966), Alì Ben Mihdi, un importante dirigente dell’FLN, spiega ai giovani compagni le difficoltà nel fare una rivoluzione e, soprattutto, quelle nel mantenerla; poi, ai giornalisti europei che lo accusavano di terrorismo, ribatte colpo su colpo insistendo sulla necessità del popolo algerino di disporre della propria sovranità.

D’altra parte, con l’operazione Champagne, il colonnello Mathieu aveva cinto d’assedio la casba, rendendo visibile, quasi fisicamente tangibile, la questione di classe nel colonialismo.

Neanche a dirlo, La battaglia di Algeri, già negli anni dell’Ulivo, fu additata come esempio negativo – dall’oggi redivivo Bertinotti – per liquidare davanti alle giovani generazioni il patrimonio di lotte della stagione antimperialista. Ma tant’è, dal 1991 in poi, dal Chiapas al “movimento dei movimenti” – adesso è proprio il caso di citarlo – Cose dell’altro mondo!

Oggi poi bisognerebbe chiedere a Bertinotti se invocare una rivoluzione contro la Rivoluzione non gli appaia invocare una Controrivoluzione! Come alcuni storici che, per ingentilire la restaurazione della Controriforma cattolica, insistono su una riforma cattolica contro la Riforma luterana.

Veramente troppo tutto questo per il nostro che, quando era segretario di Rifondazione Comunista e, all’interno del suo partito si muovevano diverse anime, ribadì di non voler essere un segretario di sintesi (posizione “stalinista”!) ma governava il partito con la dittatura della maggioranza sulle minoranze.

La Rivoluzione francese dicevamo. A Robespierre e, in generale, al Comitato di Salute Pubblica, il film di Pontecorvo sarebbe invece piaciuto. Anche perché all’indomani della sconfitta popolare di pratile dell’anno III (maggio 1795), s’insediò il Terrore bianco e non fece sconti. Esso fu accompagnato dal risveglio del partito monarchico e allarmò non poco i Termidoriani rimasti repubblicani.

Torniamo a Cuba. Gli USA gestivano la base militare di Guantanamo, controllavano le coltivazioni di canna da zucchero e le imprese americane dell’energia monopolizzavano la distribuzione dell’elettricità e del gas; assorbivano, inoltre, quasi interamente le esportazioni cubane.

Con Batista le cose peggiorarono ulteriormente. La guerriglia, capeggiata da Castro contro Batista, inizia nel 1956 e si conclude vittoriosa nel 1959. Nel giro di pochi mesi le strutture economiche dell’isola furono profondamente modificate dalla Rivoluzione: vietate le proprietà terriere più ampie di 40 ettari, affidati i campi ai contadini, nazionalizzate le raffinerie di zucchero e di petrolio, confiscati i beni nordamericani.

Misure, queste, con cui si ottennero avanzamenti sociali impensabili per un Paese del Terzo Mondo (e non solo, allora come oggi) nel campo della sanità e dell’istruzione. Da Bolivar a Martí alla sinistra antimperialista e rivoluzionaria si compie così un percorso di formazione.

Per ritorsione, già nel gennaio del 1961, gli USA ruppero le relazioni diplomatiche con Cuba e proclamarono l’embargo commerciale. E, nella primavera dello stesso anno, con la Presidenza del democratico Kennedy, tentarono attraverso lo sbarco nella “Baia dei Porci” di rovesciare il governo cubano. Ma fallirono e subirono uno smacco pesantissimo. E Cuba ancora oggi resiste e gli yankee ancora oggi ci provano.

Ciò che classicamente aveva affascinato del mito spartano – anche per chi stava con Atene – era il tema della lunghissima durata degli ordinamenti di Sparta. O, come sottolineava Platone, il potere assoluto delle leggi sugli uomini, compresi i governanti.

Muore Castro, ma gli ordinamenti della Repubblica socialista di Cuba permangono; sì, perché esiste anche la legalità socialista, non solo quella borghese e liberale.

Senonché, per l’europeo che ha dimenticato l’uso degli aggettivi, esiste solo la democrazia liberale, parlamentare e borghese e, quindi, infrangere questa legalità è andare contro “la democrazia”, infrangere quella socialista è andare verso la democrazia. Quanti ancora oggi – pure a sinistra – ripetono a memoria questa filastrocca imparata nel girello regalatogli dallo Zio Sam!

Sorvoliamo inoltre sull’Iraq e sulle “prove fumanti” di quell’altro campione di democrazia che è la Gran Bretagna e poniamoci, dunque, una domanda: è così vuota la parola democrazia? O va, invece, riempita di contenuti?

Letteralmente potere al popolo, questo è il significato di democrazia. La partita si sposta, allora, sul piano delle forme con cui si esercita il potere popolare e potremmo, anche, avanzare un’ipotesi: che non essendo un aggettivo assoluto ma scalare, si possa, quindi, definire cosa sia più o meno democratico.

Appare logico immaginare più democratica una realtà nella quale il popolo sia messo nelle condizioni migliori di partecipazione e di esercizio effettivo del potere.

Al tempo dei sofisti, ad esempio, stare dalla parte del demos, dei mercanti, significava combattere l’aristocrazia. Ma già da subito si avvertì l’esigenza di forme più compiute ed inclusive di potere al popolo. E per più di duemila anni.

Nel gennaio del 1918, si riunì in Russia l’Assemblea Costituente. I bolscevichi sapevano che l’Assemblea poteva revocare i provvedimenti presi subito dopo la Rivoluzione, dai decreti sulla pace e sulla terra al controllo operaio delle fabbriche e alla nazionalizzazione delle banche e fu per questo motivo che la sciolsero: perché come sostenne Lenin sulla Pravda, una repubblica fondata sui soviet rappresentava una forma del principio democratico più avanzato dell’ordinaria repubblica borghese.

Allo stesso modo di come, sul modello sempre dei soviet russi, l’anno successivo la Lega di Spartaco, in Germania, considerava la Repubblica di Weimar “poco” democratica, mentre i nostalgici guglielmini, “troppo” democratica.

Così, tra il 5 e il 13 gennaio 1919, il tentativo rivoluzionario portato avanti fu represso nel sangue dalla democratica (sic!) Repubblica fondata sui Socialdemocratici, sul Zentrum e sulle diverse formazioni della borghesia liberale. 

Ovvio, però, che quando c’è da fare alleanze per sconfiggere quella che si può ritenere in quel momento la contraddizione principale, come diceva qualcuno, ci si allea pure col diavolo!

Nella Cuba socialista, grazie anche al lavoro del Che, i temi della pianificazione economica non furono mai disgiunti da quelli politici: la direzione di una società socialista non è compito esclusivo dei teorici o di una particolare tecnica. Motivo per cui l’elaborazione del piano e la sua attuazione, come anche i controlli sui risultati, non sono proprietà esclusiva di una ristretta cerchia di dirigenti o tecnici, ma un esempio di gestione pubblica nel processo della costruzione socialista.

La transizione socialista di Cuba è stata, è (e deve rimanere) un processo popolare partecipato delle classi lavoratrici.

Uno dei temi ideologicamente più agitati nella propaganda contro Cuba è quello delle elezioni che – ça va sans dire – nelle democrazie alle nostre latitudini sembrano essere l’unico termometro della democrazia. Ebbene: in una società divisa in classi, i partiti rappresentano le organizzazioni politiche attorno cui ruotano – o dovrebbero ruotare – la difesa dei diversi interessi di classe.

Condizione più di scuola che di fatto, dal momento che la differenza in classi presuppone già un a priori nelle differenti e ineguali possibilità di accesso all’istruzione e alla formazione politica, col conseguente inficiarsi dell’intero processo cosiddetto “democratico”.

Il processo elettorale a Cuba invece coinvolge tutti gli abitanti dell’isola già a partire dai quartieri a livello distrettuale, municipale, provinciale e nazionale. A questo livello si aggiunge la quota che proviene dalle istituzioni di massa come i Comitati di Difesa della Rivoluzione.

A Cuba – si dovrebbe aggiungere – che dentro la transizione socialista deve necessariamente fare i conti, oltre che con le sopravvivenze dei regimi precedenti (che naturalmente permangono dentro ogni transizione, come già compreso da Marx e poi confermato dall’esperienza di Lenin e di Mao), anche e soprattutto col pluridecennale blocco imposto dagli Stati Uniti con tutte le difficoltà materiali e psicologiche che questo determina.

Gli Stati Uniti invece, con lo spettacolo della polizia che uccide selezionando i neri, con la tranquilla e rapida consegna dei poteri dall’elegante (!) Trump a nonno Biden, con la bomba atomica, con un sistema elettorale con diritto di voto non universale e con i grandi elettori per quanto riguarda le elezioni presidenziali, viene descritta come una “grande democrazia”.

Anche quando usa il suo diritto di veto all’Onu per bloccare ogni sanzione contro Israele e contribuire così allo strangolamento della causa palestinese.

Non è che dovremmo fare un rapido ripassino ai maitre a penser nostrani?

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