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Cronache da un altro tempo. Rivoluzionario…

Al ginnasio ci arrivai nel 1967. I libri tenuti assieme da una fascetta elastica.

Eravamo già abbastanza grandi per non usare più la cartella di cartone e zainetti se ne vedevano pochi in giro. Erano uno lusso per chi già faceva fatica a procurarsi i libri di testo.

I libri costavano. I vocabolari si compravano al mercatino dell’usato che fioriva ai margini degli ingressi delle scuole. Vecchi volumi, squinternati, sottolineati, tenuti assieme con la coccoina, le orecchie ai bordi che segnavano le tappe formative della generazione precedente.

I libri nuovi erano vecchi manuali aggiornati stampati su carta patinata, “rinnovati” perché l’industria editoriale doveva guadagnarci su.

Dovevi comprarli o il professore che li aveva sponsorizzati non si sarebbe guadagnato il suo benefit.

E a casa l’unico strumento culturale a disposizione era l’Enciclopedia comprata a rate da genitori previdenti per aiutare il figlio negli studi.

Erano gli anni della scuola di massa.

Ragazze e ragazzi che sarebbero stati destinati a un precoce lavoro, e dalle mie parti a prendere il biglietto del treno alla ricerca della sicurezza economica, andarono a scuola.

Non più solo la scuola professionale in cui si imparava un mestiere o gli istituti tecnici dove si formavano i “brigadieri” che avrebbero tenuto coeso e ben amministrato l’esercito sociale.

Ma i licei. Le cattedrali della cultura. Li dove si formavano le classi dirigenti del futuro.

Figli di operai, di impiegati dello strato inferiore, di artigiani, di bottegai, si mischiavano coi marmocchi che provenivano dalle classi medio alte. Quelli destinati per tradizione familiare e per diritto ereditario a diventare medici, avvocati, ingegneri, funzionari, e … futuri insegnanti.

Ne uscì fuori una miscela esplosiva.

E gli effetti di quella esplosione ce li portiamo ancora dietro.

Il liceo classico era l’ultima ridotta dell’impostazione classista data all’organizzazione della cultura.

L’ultimo bastione di resistenza di una borghesia già allora boccheggiante che provava a tenersi stretti i privilegi di casta.

Al liceo classico non si andava per poi andare a lavorare.

Ci si andava per entrare all’Università. Per diventare classe dirigente.

Per formarsi alla scuola dei “maestri” del passato e diventare i futuri “maestri”.

Il liceo classico che mi accolse mi fu subito ostile e estraneo.

E io smisi da subito di essere lo studente “modello” che sognava di diventare un genio matematico.

La scuola era diretta da un vecchio rottame fascista, diventato democristiano in tempo per conquistare l’agognata carica accademica.

Aveva fatto il sindaco per un breve periodo e della sua “avventura” politica si raccontano le fischiate corali degli spazzini della città che gli davano il benvenuto quando lo intravvedevano.

Il primo sciopero si mise su un’auto della polizia e andò in giro per la città a intercettare gli “scioperati” che non erano andati a scuola.

Poi col tempo, quando i suoi interventi per ripristinare l’ordine finirono subissate dalle pernacchie, ci rinunciò.

Tentò di mantenere fino all’ultimo la rigida divisione di classe dentro il suo istituto.

Le sezioni destinate ai figli e alle figlie “di papà”, coi migliori docenti a disposizione.

E le sezioni destinate agli “intrusi”. Coi precari, i docenti giovani che cambiavano di anno in anno, quelli vecchi e ormai decotti.

E se capitava una emergenza, la scarsa possibilità di scelta di una materia di studio, il dovere fare i conti con qualche settimana di turnazioni, una difficoltà nell’uso della palestra, una gita scolastica in una località di scarso valore, si sapeva già chi sarebbe stato sacrificato.

Io ero alla sezione E.

E l’alfabeto si fermava li.

Disprezzavo quella scuola e ne ero ricambiato con gli interessi.

Studiavo quello che mi piaceva e quando avevo voglia di farlo.

E compravo tanti libri che affollavano una casa in cui non ce ne erano mai stati molti.

I “figli di papà, imparai a guardarli dall’alto in basso. Erano loro che dovevano “vergognarsi”.

E poi, ormai, quei giovani studenti si erano mischiati nella società.

Frequentavano gli stessi bar e le stesse vie. Si riunivano nelle stesse assemblee. Leggevano gli stessi volantini.

Non che le differenze di classe non esistessero più.

Avevano fatto il loro ingresso nel tempio della cultura.

Si era lacerato il velo di ipocrisie e falsa coscienza che le nascondevano.

E ci vorranno decenni prima che quella lacerazione fosse possibile rabberciarla.

Un giorno chiesi a un professore di quelli bravi, un grecista di notevole cultura col quale era anche piacevole discutere … perché non avesse scioperato assieme alla sua categoria visto che un metalmeccanico (di allora) guadagnava più di lui.

Mi guardò sorpreso e mi rispose. “Noi siamo il sistema. Noi formiamo i quadri dirigenti di domani. Contro chi dovrei scioperare? Contro me stesso?”

E non si rendeva conto che proprio la decisione di scioperare contro se stesso, di combattere ciò che ancora pensava di rappresentare, lo avrebbe emancipato dal ruolo di mero trasportatore di merci (culturali) a cui era destinato a sopravvivere.

I miei anni da studente sono stati anni di lotta.

Di scioperi, di occupazioni, di assemblee, di scazzottate, di fughe, di manganelli che ti sfioravano la testa.

E non riesco a ricordare un momento nella mia vita di giovane studente che non sia indissolubilmente legata a un conflitto, grande o piccolo.

La mattina “ci si metteva l’elmetto” e si andava a combattere.

E l’eskimo lo portavamo non perché era di moda ma perché costava poco. Anche se d’inverno la finta pelliccia ti faceva tremare dal freddo.

E quando iniziava un nuovo anno di scuola, era un nuovo anno di lotte che iniziava.

Eravamo “strani” lo so.

Ma oggi, seduto al tavolino del bar a sorseggiare il primo caffè della giornata, guardando quelle ragazzotte e quei ragazzotti, ben nutriti e coccolati, coi loro zainetti a rotelle, le loro giacchette alla moda, le loro scarpe da trekking, penso proprio che “strani” siano proprio loro.

Come è strano questo mondo in cui mi ritrovo a passare gli ultimi anni della mia vecchiaia.

Un mondo capovolto.

Dove sono i vecchi a sognare di lottare.

E i giovani, pazienti e ordinati, a studiare per diventare la classe dirigente di domani.

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1 Commento


  • Pasquale

    Grazie a Mario Gangarossa per averci regalato bei ricordi col suo scritto. Erano i tempi in cui la tensione ideale si sentiva e il conflitto sociale era il nostro pane quotidiano. I banchetti, il volantinaggio, le imponenti manifestazioni studentesche, megafoni e bandiere rosse…
    Hasta la Victoria

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