Nella conferenza stampa di fine anno, il Presidente del Consiglio Mario Draghi si è ufficialmente proposto a Presidente della Repubblica.
In realtà da tempo era in campo, il suo ministro di fiducia Giorgetti ne aveva già lanciato la candidatura e la grande stampa economica internazionale, opportunamente imbeccata dal nostro paese, aveva fatto eco dopo una prima incomprensione.
Infatti inizialmente Economist e Financial Times avevano speso articoli per spiegare che Draghi non avrebbe dovuto muoversi da dove oggi sta, pena quell’instabilità degli affari che è ciò che più preoccupa i due giornali e i loro padroni.
Poi qualcuno ha spiegato a quelle redazioni che il banchiere come Presidente del Consiglio durerebbe al massimo fino al 2023, mentre a capo della Repubblica resterebbe fino al 2029.
Inoltre a quel qualcuno avrà anche chiarito che i poteri del capo dello stato non sono così deboli, visti i precedenti di Napolitano e Mattarella.
Del resto il solito Giorgetti aveva già incautamente affermato che con Draghi capo dello stato l’Italia sarebbe stata di fatto una repubblica (semi) presidenziale.
E alla fine Economist e Financial Times hanno cambiato linea e sono improvvisamente sono diventati sponsor del passaggio al Quirinale del capo del governo.
È stato un segnale chiaro a Letta, Salvini e compagnia, che cercavano ancora di far finta di contare qualcosa senza pagare dazio: i giochi sono finiti.
Così Mario Draghi, di fronte ad una platea di giornalisti plaudenti e servili come non mai, ha affermato di essere un “nonno a disposizione delle istituzioni“. E per chiarire ulteriormente le sue intenzioni ha posto due paletti a sostegno della sua candidatura.
Il primo è stato quello di rassicurare quella vasta area di parlamentari, che magari lo voterebbe ma che teme dopo di lui le elezioni anticipate, che con lui capo dello stato non si voterebbe prima del 2023.
In secondo luogo ha minacciato il centrodestra di sfracelli se volesse eleggersi un suo presidente magari contando sui voti di Renzi, affondando così definitivamente la penosa e squalificante candidatura di Berlusconi.
Ci vuole un capo dello stato eletto da tutti, ha affermato il Presidente del Consiglio, alludendo al suo governo votato da quasi tutti, guarda caso auspicando che anche Meloni entri in esso.
Ora Draghi è concretamente in campo e lo scomposto balbettio dei ridicoli leader dei partiti, incapaci ed impossibilitati nel dire le sole parole chiare – “no, perché non vogliamo un presidente coi superpoteri” – fa capire che la sua marcia verso il Quirinale troverà ben pochi ostacoli nel palazzo.
Un palazzo che litiga sul nulla, ma che si trova subito unito con Draghi nel respingere la legge contro le delocalizzazioni degli operai della GKN.
Noi che già il 4 dicembre siamo scesi in piazza con il No Draghi Day e che il 5 dicembre abbiamo lanciato un appello per non eleggere Draghi Presidente della Repubblica, oggi siamo ancora più convinti delle nostre scelte, per quanto totalmente contro corrente rispetto alla deriva del sistema politico.
Di un sistema politico che dopo aver colpito la Costituzione nei suoi principi sociali con trent’anni di politiche liberiste, ora si prepara ad affondarla anche su quello della regole democratiche. Che sarebbero sempre più ridotte a vuota forma, sotto la supervisione di un lord protettore incoronato presidente dal padronato, dalle banche, dai poteri economici italiani ed europei, dalla NATO.
E ovviamente da una classe politica senza alcuna dignità.
No alla repubblica presidenziale per via bancaria e confindustriale. No a Draghi presidente!
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