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“Una piccola imposta sulla ricchezza finanziaria per assumere 1 milione di giovani”

Pubblichiamo l’appello al governo di un gruppo di accademici dell’università di Torino che propone di finanziare con una patrimoniale sulla sola ricchezza finanziaria l’assunzione di giovani laureati in tutti i comparti nella pubblica amministrazione. Un piano neokeynesiano che mira a ridurre la disoccupazione giovanile e allargare al tempo stesso la base imponibile.

Sette miliardi sono tanti o pochi?
Si sta discutendo molto sull
’uso di sette miliardi stanziati per la riduzione delle tasse. Sette miliardi sono una cifra enorme: un miliardo sarebbe sufficiente per pagare uno stipendio di 3.000 euro lordi al mese per un anno a più di 25.000 lavoratori, o se preferite a pagare quello stipendio per l’intera vita lavorativa a più di 600 lavoratori. Basta moltiplicare queste cifre per sette per capire cosa significano sette miliardi.

Al tempo stesso, sette miliardi sono ben poca cosa se paragonati alla ricchezza finanziaria (quindi senza considerare gli immobili e gli oggetti di valore) delle famiglie italiane: sono infatti solo l’1,5 per mille di tale ricchezza.

Se il governo decidesse di ottenere quei sette miliardi mediante un’imposta su tale ricchezza, il danno per il contribuente sarebbe impercettibile persino se l’imposta fosse proporzionale (sarebbe ovviamente meglio che le aliquote fossero progressive): chi avesse sul conto in banca una giacenza media di 10.000 euro pagherebbe in un anno un’imposta di 15 euro.

Secondo i nostri calcoli, un’imposta sulla ricchezza finanziaria dell’1% con una quota esente di 100.000 euro fornirebbe le risorse necessarie ad assumere stabilmente un milione di giovani. Con un’imposta di poco superiore all’1% la quota esente potrebbe raggiungere i 300.000 euro.

Di fronte a cifre simili viene spontaneo domandarsi: esistono obiezioni valide all’introduzione di una piccola imposta sulla ricchezza finanziaria?

Ci occupiamo di questo problema da alcuni anni, e possiamo rispondere fondatamente di no. Esistono invece moltissimi argomenti a favore, che qui è inutile ricordare perché ce ne è uno che di per sé è risolutivo: gli enormi benefici che la società può ottenere a fronte di un costo minuscolo per i contribuenti.

La risposta alla domanda del titolo è allora: sono tanti e anche pochi. Sette miliardi sono una cifra cospicua dal lato della spesa; sono una cifra piccolissima rispetto alla disponibilità finanziaria esistente in Italia.

Perché il governo rifiuta di prendere in considerazione l’imposta qui suggerita?

Non lo sappiamo. Può essere per una scelta politica, e può essere per un altro motivo che non conosciamo. Ci permettiamo di chiederlo al governo mediante questo intervento.

Filippo Barbera, Università di Torino

Maria Luisa Bianco, Università del Piemonte Orientale

Giancarlo Cerruti, Università di Torino

Bruno Contini, Università di Torino

Federico Dolce, direttore del Centro Studi Argo di Torino

Antonio Graziosi, già all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, Ginevra

Guido Ortona, Università del Piemonte Orientale

Francesco Pallante, Università di Torino

Francesco Scacciati, Università di Torino

Andrea Surbone, scrittore

Pietro Terna, Università di Torino

Dario Togati, Università di Torino

Willem Tousijn, Università di Torino

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