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La trappola dell’opposizione

Dopo la sconfitta umiliante del centro-sinistra (preferisco definirlo così l’esito delle elezioni piuttosto che “la vittoria clamorosa della destra”) si sprecano le chiamate alle armi: facciamo opposizione! Lo si può capire, il ceto politico superstite deve pensare a come sopravvivere. Ma questo è il modo più efficace per evitare di affrontare il vero problema.

Il vero problema è: come ricostruire una prospettiva politica che contenga una parte almeno dei valori per cui è nata “la sinistra”. Il vero problema non è il governo Meloni, perché questo governo non è che il risultato di una lunga marcia di arretramento, iniziata forse già negli anni ’70, da parte delle forze politiche che si richiamavano ai valori della giustizia sociale e della pace.

Valori che avevano come punto di riferimento la condizione della parte più debole della società, più sottomessa, le “classi subalterne” la chiamavano allora. Quella che più aveva da perdere da una guerra.

Tutto il resto, il problema dei diritti civili, il problema della giustizia, il problema della politica estera, della politica economica, della scuola, della sanità, del fisco, la politica della cultura – tutto veniva da quella scelta di campo, di stare dalla parte dei più deboli.

Chiaro come il sole, semplice, non c’è bisogno di scomodare né Marx né Lenin, né l’antifascismo né la Resistenza.

Problematiche d’altri tempi – mi si obbietta – la classe operaia, il proletariato, non ci sono più. Ma scherziamo? Oggi non solo quella classe operaia si è moltiplicata frantumandosi in mille rivoli di precariato ma l’area delle “classi subalterne” è diventata assai più ampia perché là dentro ci è scivolata una bella quota di middle class.

Questa è una parte della società molto più debole, molto meno tutelata, molto più insicura della classe operaia di 40 anni fa, perché i poteri economico-finanziari di oggi sono molto più forti, più invasivi, le tecnologie con cui controllano e condizionano la mente e le scelte della gente molto più incontrollabili.

Oggi c’è un livello d’istruzione molto più elevato, certo, ma i nostri laureati stanno peggio del metalmeccanico Fiat anni ’70 e a 35 anni sono ancora in famiglia. Possibile che nessuno dei partiti dell’”agenda Draghi” avesse un’idea su come farli uscire da questa situazione? Non certo con il Pnrr, la Next Generation EU destina ai giovani l’1,12% del suo bilancio, come ci dice il Censis.

Le forze politiche che avrebbero dovuto rappresentare l’alternativa alla destra hanno cancellato dalla loro prospettiva la “questione sociale”, pensando di potersi guadagnare la medaglia di progressismo con un po’ di ecologismo di maniera, un po’ di pidocchiosa “inclusione” e un po’ di aperture transessuali.

Quindi la chiamata alle armi con cui si gonfiano il petto non è che il miserabile trucco per non dover rispondere del loro tradimento dei valori della vera democrazia. Per non dover rispondere di averci portato in guerra.

Come si fa a ricostruire questa immensa rovina? Come si fa a riportare in primo piano la moderna “questione sociale”, quella determinata dalla globalizzazione e dalla gig economy, dalla digitalizzazione e dal metaverso?

La via istituzionale è definitivamente bloccata, non c’è forma della politica di partito che possa essere utilizzata, non solo perché non c’è più presenza sul territorio ma perché il personale politico non sente più “un mandato”, non sente più la responsabilità di rispondere a degli elettori, pensa solo a riprodurre se stesso, pensa solo “alla poltrona”.

Non è qualunquismo, è la constatazione di ogni giorno ed è la ragione prima della irriformabilità di questi partiti. Solo le forme “sindacali” hanno conservato ancora un certo potere di venire incontro al disagio sempre crescente di quell’immensa zona grigia, maggioritaria nella società, che soffre della propria subalternità e impotenza, individuata così bene dai movimenti populisti.

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