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L’altra faccia della guerra in corso

Il 39% delle armi (e degli armamenti) esportate nel mondo sono prodotte negli Stati Uniti.

L’industria bellica è parte integrante del capitalismo di quel paese.

Immaginare l’economia Usa senza i profitti prodotti dalle guerre è IMPOSSIBILE.

Il ‘Pentagono’ è il più grande datore di lavoro del mondo. Impiega oltre 3,2 milioni di persone, di cui 1,3 milioni di militari, donne e uomini in servizio attivo, 742mila civili, 826mila nella Guardia nazionale e nelle forze di riserva.

È una “economia di guerra in tempo di pace” in grado di sostenere conflitti di lunga durata.

Una economia che vive e prospera sui conflitti armati.

Al momento, la Russia con la sua produzione militare che copre il 19% delle esportazioni belliche, è l’unica potenza capace di sostenere, al pari degli Usa un conflitto PROLUNGATO nel tempo.

La Cina è ancora indietro nella corsa agli armamenti, anche se sta accelerando il suo riarmo in progressione geometrica.

Accumula risorse e guarda alla finestra i suoi competitors che si indeboliscono bruciando le loro riserve.

Quando sarà pronta ce ne accorgeremo senza bisogno di scomodare gli analisti di strategia.

Taiwan è il suo obiettivo immediato. Attende solo il momento opportuno per aprire lì la sua partita a risiko.

L’Europa non esiste politicamente, men che meno militarmente. Deve ancora elaborare il lutto della defezione della Gran Bretagna e risolvere le contraddizioni fra i suoi litigiosi staterelli che si fanno a vicenda la cresta sulle spese del suo funzionamento.

Dentro la Nato ha un ruolo di comparsa, subordinato non solo di fronte alle scelte strategiche del “padrone di casa”, ma perfino di un alleato “economicamente arretrato” come la Turchia.

In questa guerra non è un soggetto attivo ma il terreno di battaglia.

Le classi dirigenti europee sono entrate in guerra impreparate e con l’atteggiamento maramaldesco di chi pensava che tutto si sarebbe risolto in pochi mesi dopo qualche schermaglia, e che alla fine si sarebbe arrivati a un “compromesso” capace di salvare la faccia e gli interessi “comuni” fra amici, che “momentaneamente” si trovano in disaccordo.

Ha confidato nella capacità di ricatto della potenza militare dell’Occidente e della sua “superiorità” tecnologica e produttiva.

Coscienti che partecipare direttamente allo scontro bellico fra le potenze imperialiste comporterà l’implosione della sua artificiosa costruzione, e il suicidio politico e materiale delle nazioni che la compongono, hanno provato a limitare il loro intervento sul terreno della guerra economica.

Qualcuno ricorderà che le sanzioni alla Russia, inizialmente erano spacciate come l’alternativa all’impegno militare indiretto, così come oggi l’invio di armi è spacciato come l’alternativa all’intervento diretto.

Ma sanzionare chi, fino a ieri, era il fornitore privilegiato (e conveniente) di energia e di materie prime fondamentali per tenere in piedi la tua economia è un boomerang che fracasserà la tua testa prima di scalfire quella di Putin.

Ha lo stesso valore di un cero acceso alla madonna perché interceda con “la buona stella” affinché un accidenti se lo porti via e rimetta tutto a posto.

Il gas russo brucerà invenduto e il grano marcirà nei silos.

Ma i russi si riscalderanno e mangeranno.

Fatto che comincia a essere problematico al di qua delle trincee.

L’Europa deve fare i conti con la guerra nella quale ormai è impegnata con tutte le sue risorse.

Deve porsi il problema del veloce passaggio a una ECONOMIA DI GUERRA con tutte le conseguenze che questo comporta.

Il 2% del Pil investito in armamenti fa sorridere quando un sistema di difesa SAMP/T (fiore all’occhiello della produzione bellica italo-francese), capace di “proteggere” una intera area metropolitana, costa 800miliomi di euro… e “noi” ne abbiamo appena 5, di cui uno pare prestato in giro per il mondo e un altro impegnato per il necessario addestramento all’uso.

Passare ad una economia di guerra in tempi brevissimi, coi costi sociali che questo comporterà.

Non ci sono altre strade se la guerra continua.

Dubito che le classi dirigenti abbiano coscienza di quello che significa.

Possono contare sulla passiva e rassegnata inettitudine delle classi dominate.

Sanno che hanno lavorato bene negli anni del “benessere” e della pace sociale. Costruendo un consenso che gli garantirà un futuro ben oltre le loro più rosee aspettative.

Siamo noi che abbiamo lavorato male.

E continuiamo a farlo.

* da Facebook

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1 Commento


  • leonardo

    mah

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