Un noto atlantista da operetta offre la propria sapienza per consacrare la guerra. Lo fa ponendo quella che lui stesso definisce la domanda definitiva: «per che cosa siamo disposti a morire e a uccidere?».
L’essere in questione è reale, ma possiamo considerarlo una maschera riassuntiva di un’attitudine, quella in voga in questo periodo, ossia l’affermazione del militarismo, delle virtù morali del soldato, di tutto il ciarpame dell’oratoria dannunziana che offre la propria sapienza per «ripensare il posto della guerra nella prospettiva della nostra vita».
Ovviamente, trattandosi di un atlantista, e come tale non interessato alle cose materiali, ma solo e solamente ai valori etico-morali, la guerra cui fa riferimento è quella per «la difesa della nostra libertà».
Ora, il noto saggio, del tutto ignaro dell’effetto comico, e animato dalla ragionevolezza enfatica tipica dell’ideologo, non tralascia di farci presente che la liberaldemocrazia è l’unico sistema «che rende possibile la pace». E lo scrive proprio così.
Sappiamo, certo, che più dell’80% delle guerre che si sono combattute dopo la Seconda guerra mondiale sono da ascriversi alla responsabilità diretta delle liberaldemocrazie, senza dimenticare gli effetti disastrosi del colonialismo, dei colpi di stato e di altre invenzioni del genere, tutte creature di quell’immenso «arsenale delle umane follie» che la storia ci tramanda grazie all’interventismo liberale; ma l’atlantista è, diciamo così, un po’ spericolato nella sua esegesi.
Si può supporre un Vittorio Emanuele – questo il nome dell’atlantista – invaghito dell’ardire dannunziano, con propensione alla retorica militare; ed eccolo infatti approdare, nel suo discorso, alla differenza tra “amico” e “nemico” e alla necessità di definire i criteri che permettono di distinguerli.
Qui ci si aspetterebbe una disamina non dico scientificamente rigorosa, ma almeno seria, di quelle che sono comunque, per quanto errate, intellettualmente avvedute. Pur sempre di un dotto stiamo parlando, per altro professore universitario ed esperto in relazioni internazionali.
E invece, ecco il criterio: occidentali VS non occidentali. Dove i secondi sono regimi, a detta del Parsimonioso, e scolasticamente, «autoritari» e «fondati sulla menzogna e sulla violenza».
Un accademico può compiacersi di tanta leggerezza? Evidentemente sì. D’altra parte, come consacrare la guerra se non con una grande operazione di semplificazione?
Detto ciò, non serve qui rimandare al saggio di Hannah Arendt sulla menzogna in politica, contenente riferimenti espliciti alla fraudolenta politica internazionale della nazione che più di ogni altra rappresenta la liberaldemocrazia, ossia gli Stati Uniti; chiunque abbia una conoscenza anche solo sommaria della storia sa bene che l’inganno dei popoli e della comunità internazionale è una delle armi più utilizzate dalle liberaldemocrazie per giustificare le proprie politiche imperiali, come il caso dell’Iraq dimostra al di là di ogni dubbio.
Insomma, l’atlantista in questione, nota star dello spettacolo della retorica bellica, rientra in quella schiera di intellettuali che la stessa Arendt considera, con giusto disprezzo, “intellettuali” tra virgolette, così poco interessati alla verità «perché affascinati dalla mera dimensione degli esercizi mentali». Palestrati del Nulla, nel senso più teatrale – da operetta, per l’appunto.
Dunque, per chiudere questo divertissement, il nostro atlantista giunge alla conclusione, anche questa gonfia di nobile retorica, che la sfida che ci aspetta è immane: riprendere a pensare alle virtù positive della guerra (e dell’omicidio, ça va sans dire), rendendosi disponibili a combattere per difendere i “valori” occidentali, così da «impedire il trionfo degli autoritarismi».
C’è dentro tutto ciò che fonda il discorso atlantista: un presentimento da guerra di civiltà; un’idea che non può che porre sul tavolo la questione dell’abbandono dell’«equivalenza delle ragioni»; che poi, uscendo dalla dotta ambiguità, e dicendola semplice-semplice, vuol dire ciò: che la “nostra” ragione, di noi occidentali, vale di più. E qui si chiude il cerchio.
Poco altro da dire. Semmai aggiungo, smettendo di ridere, che la logica di un tale approccio è certo ridicola, e persino infondata, ma non per questo meno pericolosa, giacché gode di un notevole consenso presso i decisori politici, ed è dunque potenzialmente foriera di scelte catastrofiche.
Il tentativo disperato, grottesco e fraudolento di fare dell’atlantismo professione di fede, svela l’essenza di quello che giustamente è definito “suprematismo occidentale”.
Finché si crede “superiore”, per l’occidentale il “bene” coincide con la propria opera. E poiché si tratta di un’opera di gerarchizzazione del mondo, per rivendicarla, per renderla concreta, lo sfruttamento dell’Altro è legittimo. L’essere “superiore” al quale perviene è un essere sciovinista e intollerante, e intimamente razzista. Si crede il migliore, ma tale idea è solo il riflesso del suo dominio, e dunque il risultato di un processo storico fondato sullo sterminio, sullo schiavismo, sul colonialismo.
La superiorità dell’occidentale si pone immediatamente sul piano dell’aggressione dell’Altro: la sua è – e lo è davvero – un’ideologia di guerra. Il suprematismo occidentale è la militarizzazione del pensiero liberale, sempre più sfacciatamente al servizio di politiche di potenza e antidemocratiche.
Eppure, il tutto affascina. E l’atlantista da operetta ha successo. E produce opere che rivendicano la puntigliosa sintassi bellica del D’Annunzio. Più che al Vate somiglia, mi pare, a un grottesco Napoleone, con in testa un elmo di duro, resistente kevlar; ridicolo, ma piace.
D’altra parte, come scrisse quel grande fustigatore del militarismo che era Karl Kraus, la tragedia è da tempo «diventata farsa, ovvero, per la compresenza della mostruosità attuale e dell’antico delirio formalistico, in operetta, in una di quelle ributtanti operette di oggi, il cui testo è un insulto e la cui musica è una tortura».
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L’atlantista in questione è Vittorio Emanuele Parsi. Le frasi citate sono tratte dal suo libro Il posto della guerra e il costo della libertà (Bompiani), ottima sintesi dell’ipocrisia liberale e militarista.
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Binazzi Sergio
è proprio così il pensiero di questo parsi direi da quello che ho letto nell’articolo che coincide con il pensiero dannunziano, pensiero condiviso da tanti purtroppo. in italia e in Europa evidentemente il fascismo ci ha insegnato poco, anzi, perché non rispolverarlo? l’alleanza con i nazisti, come allora, è già sulla carta.