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Alla Palestina non basta più il diritto internazionale

Nei decenni Israele ha “abituato” la comunità internazionale ad accettare la politica dei fatti compiuti. Contestualmente i palestinesi hanno sempre fatto appello all’attuazione delle risoluzioni dell’Onu già esistenti e al diritto internazionale per ottenere il riconoscimento delle loro rivendicazioni nazionali. Ma, occorre ammettere, con scarsissimi risultati.

Dovremmo dunque partire dalla domanda posta da Ilan Pappè in un saggio del 2008 dove si chiedeva “fino a quando il mondo permetterà ad Israele di fare quello che fa?”.

Vediamo come la politica dei fatti compiuti ha di fatto depotenziato qualsiasi attuazione del diritto internazionale nella questione palestinese e nei paesi vicini ad Israele.

I confini

Israele non ha mai dichiarato quali siano i propri confini. In questo modo ha potuto estenderli a piacimento in nome della propria sicurezza. E’ il caso di Gerusalemme e della Cisgiordania, ma è anche il caso dell’annessione delle alture del Golan a discapito della Siria o dei territori del Libano del Sud. In questo caso non solo sui confini terrestri (Sheba) ma anche su quelli marini delle ZEE (Zone Economiche Esclusive). Ad aprile sullo sfruttamento dei giacimenti di gas nel mare è stato raggiunto un controverso accordo con il Libano.

Le uniche occasioni in cui Israele ha dovuto fare marcia indietro sui confini è stato nel 1982 con lo smantellamento delle colonie nel Sinai a seguito dell’accordo di Camp David con l’Egitto; il ritiro dal Libano del Sud nel 2000 dovuto ai costi militari, economici e umani imposti dalla Resistenza libanese; il ritiro delle colonie da Gaza nel 2005 perché indifendibili militarmente.

Il Muro

La vicenda del Muro è altrettanto emblematica. Nonostante il parere della Corte Internazionale di Giustizia del 2004, Israele ha costruito il Muro di sicurezza e lo ha tenuto in piedi fino ad oggi sottraendo territori alla Cisgiordania palestinese e rendendo spesso impossibile la vita alla popolazione. Ha concesso solo qualcosa sulla base di una indicazione della Corte Suprema Israeliana.

Gerusalemme Capitale

Nel 2017 l’amministrazione USA ha legittimato l’ambizione israeliana a dichiarare Gerusalemme come propria capitale. Formalmente solo Stati Uniti, Guatemala, Honduras e Kosovo hanno accettato di aprire ambasciate a Gerusalemme. Degli stati dell’Unione Europea, quelli che hanno già uffici diplomatici a Gerusalemme non ancora convertiti in ambasciate sono la Repubblica Ceca, l’Ungheria, l’Italia e la Slovacchia. Poi ci sono le disponibilità di Papua Nuova Guinea, Malawi, Togo e Uganda a farlo nei prossimi anni. Eppure le Nazioni Unite riconoscono Tel Aviv e non Gerusalemme come capitale di Israele.

Anche qui la totale inerzia reattiva della comunità internazionale di fronte al fatto compiuto, ha spianato la strada a quella che si configura come una vera e propria pulizia etnica ed ebraicizzazione di Gerusalemme con demolizioni di case ed espulsione della popolazione palestinese.

Le armi nucleari

Israele dispone di un considerevole arsenale nucleare militare ma non ha firmato il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP). Ragione per cui nega le ispezioni dell’Agenzia Atomica Internazionale (AIEA) nei propri impianti nucleari. Si limita a dichiarare di non possedere armi nucleari – anche se tutte le fonti ufficiali confermano che ne è in possesso – e la comunità internazionale non chiede mai conto di tutto questo. In compenso Israele pretende che altri paesi del Medio Oriente come l’Iran rinuncino al nucleare militare, accettino le ispezioni dell’AIEA, subiscano le sanzioni. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea accettano queste pretese di Israele e questo schema di relazioni nella regione sulla questione dell’equilibrio o squilibrio del deterrente nucleare.

Alla luce di queste imposizioni con cui Israele ha messo la comunità internazionale di fronte ai fatti compiuti, il richiamo al rispetto del diritto internazionale è stato completamente depotenziato.

Possiamo dire che per la politica di Israele l’unico linguaggio in grado di modificarne le scelte è, specularmente, quello dei fatti compiuti in senso contrario.

Ad esempio se i palestinesi decidessero unilateralmente di spostare la loro capitale da Ramallah a Gerusalemme Est, oppure venissero approvate finalmente delle risoluzioni che riconoscono il diritto alla sicurezza anche per i palestinesi, sarebbero segnali significativi che la politica dei fatti compiuti non è più un esercizio monopolistico della politica israeliana.

La decisione delle organizzazioni palestinesi di rispondere colpo su colpo ai raid israeliani nelle città palestinesi sta, di fatto, affermando tale necessità.

Sono ipotesi che sembravano impensabili fino a pochi mesi fa, ma con la crescente tendenza a relazioni internazionali finalmente fondate su un mondo multipolare e alle evidenti difficoltà degli alleati storici e dei complici con la politica di Israele, queste ipotesi non appaiono più così impraticabili.

Nel mondo si stanno dando finalmente le condizioni affinchè venga posto fine al doppio standard nell’attuazione del diritto internazionale, un sistema completamente diverso da quello “fondato sulle regole” che Stati Uniti ed Unione Europea – e di conseguenza anche Israele – hanno usato a proprio piacimento nelle relazioni internazionali.

(intervento al convegno La Palestina e il diritto internazionale)

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