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Perché gli sforzi della Meloni e di Salvini sono destinati a fallire

All’indomani del consueto rito annuale che si è svolto a Pontida e che ha visto come protagonista, insieme con la leader della destra francese, l’attuale vicepresidente del Consiglio, il capo vandeano “al testosterone” (così fu definito in un articolo per il NYT da Tim Parks, sagace e mordace commentatore britannico di cose italiane) che minaccia di mobilitare la Marina Militare per fermare gli sbarchi dei migranti, sarà il caso di ricordare alle molte persone, le quali credono, illudendo sé stesse e/o illudendo altri, che, rispetto alla questione degli immigrati, il governo Meloni-Salvini sia il ‘governo del cambiamento’, una dura verità: come è impossibile che il dentifricio, una volta espulso dal tubetto, possa esservi fatto rientrare con qualche manovra più o meno abile o con qualche espediente più o meno ingegnoso, così è impossibile fermare le migrazioni in corso.

Se è vero infatti che nel XVIII e nel XIX secolo l’Europa ha popolato il mondo, è altrettanto vero che oggi il (Terzo) mondo sta popolando l’Europa, giacché quanto sta accadendo da alcuni decenni a questa parte è la plastica dimostrazione degli effetti generati dalle grandi tendenze demografiche in atto.

In altri termini, l’attuale crisi migratoria, alimentata non solo dalle guerre nel Vicino Oriente, ma anche da altre dinamiche ancor più importanti, farà dell’immigrazione verso l’Europa un problema permanente destinato a durare ben oltre l’attuale decennio.

D’altronde, anche gli studenti della scuola media sanno che le migrazioni dell’ultimo periodo dell’età antica (Unni, Ostrogoti, Vandali, Visigoti, Longobardi ecc.) ne segnarono, insieme con quella dell’Impero romano, la fine e durarono almeno tre secoli (IV-V-VI), aprendo la strada al medioevo, per poi riproporsi nel cruciale IX secolo con gli Arabi, gli Ungari e i Normanni.

Per tornare ai nostri giorni, la ragione dell’attuale crisi migratoria è semplice: l’Europa è un continente ricco, che sta vivendo un lungo “inverno demografico” (questa è la definizione usata dagli studiosi di demografia) e la cui popolazione è sempre più anziana e stagnante.

Al contrario, l’Africa, il Vicino Oriente e l’Asia del Sud sono aree più giovani e povere, la cui popolazione cresce velocemente. E però le cifre e le percentuali sono più eloquenti degli infiammati comizi del leader leghista.

Al culmine dell’ascesa del primo imperialismo, nel 1900, i Paesi europei rappresentavano il 25% della popolazione mondiale; oggi, gli europei sono circa 500 milioni e rappresentano attorno al 7% degli abitanti del pianeta. In Africa, al contrario, ci sono ora più di un miliardo di persone e, secondo l’ONU, diventeranno 2,5 miliardi nel 2050.

Tanto per fare alcuni esempi, la popolazione dell’Egitto è raddoppiata dal 1975, raggiungendo gli oltre 80 milioni di oggi; la Nigeria, dal canto suo, aveva 50 milioni di abitanti nel 1960, che ora sono cresciuti a 180 milioni e nel 2050 saranno oltre 400.

In breve, le migrazioni di africani, arabi e asiatici in Europa segnano il capovolgimento di una tendenza storica. Sennonché il loro flusso non dipende né da loro né da noi.

Ad agire sono le forze profonde dello sviluppo capitalistico, alle quali poco o nulla possiamo opporre. Sono queste le forze che stanno disgregando le società contadine africane, gettando masse di disperati espulsi dai campi e dalle zone rurali, potenziale forza-lavoro, verso le città.

È storia antica. Se risaliamo indietro, la stessa cosa è successa in Europa agli albori del capitalismo. Nell’epoca del colonialismo, l’Europa praticò una politica populazionista, spingendo le sue popolazioni bianche ad emigrare in ogni direzione.

Così, nel Nord America e in Australia gli indigeni furono sottomessi, spesso sterminati, e interi continenti furono trasformati in appendici dell’Europa. I Paesi europei, inoltre, crearono colonie ovunque e vi insediarono i propri emigranti, mentre allo stesso tempo diversi milioni di persone furono costrette a emigrare con la forza, come schiavi, dall’Africa verso il Nuovo Mondo.

Quando gli europei popolavano il mondo, spesso lo facevano attraverso una specie di “migrazione a catena”, che coinvolgeva i membri delle singole famiglie. Sennonché ora la catena, che non si avvale più, come strumento di comunicazione, della posta cartacea ma di quella elettronica, si muove nella direzione opposta: dalla Siria alla Germania, dal Marocco ai Paesi Bassi, dal Pakistan alla Gran Bretagna, dalla Nigeria all’Italia.

In tal modo, negli ultimi quarant’anni, Paesi come l’Inghilterra, la Francia e l’Olanda sono diventati multirazziali e i governi che hanno tentato di fermare, o almeno rallentare, l’immigrazione si sono accorti che non solo è molto difficile mantenere le promesse fatte durante campagne elettorali tutte incentrate su temi xenofobi e/o razzisti, ma che persistere nelle politiche meramente ‘muscolari’ è un’impresa donchisciottesca.

L’atteggiamento dell’Unione Europea è che, mentre i “rifugiati politici” possono chiedere asilo in Europa, i “migranti economici” clandestini devono tornare a casa. Per varie ragioni, tuttavia, è improbabile che questo approccio riesca a contenere i flussi di popolazione.

Innanzitutto, il numero dei Paesi che sono tormentati dalla guerra o dalla disgregazione degli Stati, più o meno indotta dalle mene imperialiste euro-americane, potrebbe realmente aumentare (sappiamo infatti che la Libia, come Stato unitario, non esiste più, l’estensione dello Stato siriano si è ridotta e l’Algeria e la Tunisia sono periclitanti).

In secondo luogo, la maggior parte di quelli che sono considerati “migranti economici” di fatto non lasciano mai l’Europa.

In terzo luogo, l’apporto degli immigrati al settore primario e al ‘terzo settore’, nonché la funzione calmieratrice dei salari operai svolta dalla loro forza-lavoro potenziale come esercito industriale di riserva, sono fattori essenziali e decisivi.

Infine, una volta che consistenti comunità di immigrati si sono stabilite in un certo paese, il diritto alla ricongiunzione familiare alimenta un flusso ininterrotto.

La conclusione più probabile, allora, è che l’Europa rimanga una destinazione allettante e, nonostante gli sbarramenti che i populisti cercano di interporre, largamente accessibile per le popolazioni povere di tutto il mondo, che aspirano a una vita migliore.

Gli europei sono oggi profondamente confusi e divisi su come rispondere a queste nuove sfide: talvolta, l’apertura indiscriminata del cosmopolitismo e la chiusura altrettanto cieca del nazionalismo si alternano, senza trovare un punto di contatto, negli atteggiamenti e nei comportamenti delle stesse persone.

Nell’età del primo imperialismo, non era difficile giustificare gli insediamenti in terre straniere con la convinzione che il “fardello dell’uomo bianco”, cioè la sua missione, fosse quella di esportare i benefici della civiltà nelle aree più arretrate del mondo.

L’Europa dell’“imperialismo benigno” di oggi (in realtà ben poco “benigno” se si considera il massiccio aiuto militare che sta fornendo all’Ucraina in funzione antirussa) è molto più prudente, dopo gli eventi epocali della seconda guerra mondiale, nel sostenere la superiorità della propria cultura e ha sostituito la fede biblica nella sua missione civilizzatrice con la narrazione sui valori universali, sui diritti individuali e sui trattati internazionali.

Dunque, in attesa che un nuovo internazionalismo marxista si faccia valere riproponendo, in forme adeguate all’attuale congiuntura politico-sociale, la grande parola d’ordine del Manifesto: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!» -, che cosa ci si deve attendere dal conflitto fra cosmopolitismo globalizzatore e nazionalismo nativista, conflitto tutto interno alle classi dominanti borghesi anche quando coinvolge vaste masse della popolazione?

Direi nulla di buono, perché il primo è l’espressione di un universalismo astratto – il classico universalismo della forma-merce – e il secondo può anche vincere in termini di influenza ideologica a livello di massa, ma è del tutto inapplicabile sul piano pratico, perlomeno in Europa.

Volete la prova? Anche se l’insegnamento della geografia è stato oggetto nel nostro sistema scolastico di riforme sostanzialmente soppressive, munitevi di un mappamondo e date un’occhiata all’Europa. C’è il caso che scopriate che essa, a differenza dell’Australia e del Giappone, nazioni insulari, è una modesta penisola del continente euroasiatico, che solo un breve recinto di acqua marina separa dall’Africa e dall’Asia…

La politica dei blocchi navali e del “cordone sanitario”, un misto di arroganza, di rivalsa e di inanità, può pagare nell’immediato, soprattutto in termini di consenso, ma, se si tiene conto della lezione della storia e dei dati reali, relativi non solo al contesto mondiale ma anche a quello europeo e italiano, è una lotta vana contro il carattere irreversibile dei processi e contro l’ordine di grandezza delle cifre.

Noi europei possiamo respingere gli immigrati, alzare tutte le barriere artificiali che vogliamo seguendo l’esempio degli Stati Uniti verso l’immigrazione proveniente dal Messico, ma non possiamo sfuggire alle leggi dello sviluppo capitalistico e della composizione demografica: non possiamo evitare che decine di migliaia di africani vengano, ogni anno, a turbare i nostri sonni. 

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