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Il linguaggio dell’orrore

Oggi, di fronte alla catastrofe di Gaza, il giudizio e il confronto sono stati rimpiazzati dal posizionamento ideologico. Non si tratta più di affrontare i contenuti di un enunciato; ci si rapporta ad esso misurandone l’aderenza o il distacco da uno specifico campo valoriale.

Si ripete, con maggiore foga, quanto accaduto per la guerra in Ucraina. Se scrivo che l’invasione russa presenta caratteri reazionari e imperialisti, ma allo stesso tempo mi esprimo contro l’invio di armi e contro la NATO, vengo subito inquadrato tra le fila dei filo-putiniani.

La linea discorsiva si sposta così non tanto sulla mia particolare “visione” o sui contenuti che esprimo, bensì sulla vergogna di non essere parte di un’alleanza, quella della civiltà occidentale contro «le steppe russe».

In tali condizioni, il confronto è impossibile; conta solo l’appartenenza.

Una tale radicalizzazione del posizionamento ideologico non può che sfociare nella deriva del pensiero e del linguaggio. Se, da una parte, le posizioni dialettiche e più articolate vengono screditate, perché non consone alla narrazione dominante, dall’altra si assiste a un imbarbarimento del linguaggio, sempre più somigliante a un gergo aggressivo e intollerante.

Questa tendenza sembrerebbe tipica dei social media; in realtà, discende in gran parte dal declino dei “ceti riflessivi”, nei quali lo spirito critico è stato sostituito dall’adesione ideologica.

Tipicamente giornalistici sono, per esempio, l’uso e la diffusione di epiteti infamanti rivolti a tipologie di persone ritenute, di volta in volta, nemiche del comune sentire (il no-vax, il pacifista, il filopalestinese). Da questa deriva alla barbarie, il passo è breve.

Sì, questa tendenza interessa tanto i social media che i media mainstream. Non è azzardato dire che la “barbarie lessicale” del semplice cittadino è strettamente legata a quella di giornalisti o editorialisti; sono dimensioni che si compenetrano una nell’altra, alimentandosi a vicenda.

Si tratta, in entrambi i casi, di enunciati dove le pulsioni primitive (odio, vendetta, violenza) prendono il sopravvento.

Tra i due cambia, forse, la proprietà di linguaggio, ma la deriva è la medesima; se i primi cadono vittime di pulsioni indomabili, nei secondi subentra un certo pudore che spinge a misurare le parole. Nell’uno e nell’altro caso, il linguaggio è un sistema che finisce per esprimere una ferocia incivile e disumana.

Che differenza c’è tra un editorialista che scrive, in riferimento al bombardamento di Gaza, «il giusto fuoco», e un semplice cittadino che scrive che il suono delle bombe sui civili «è il suono della giustizia»?

Combattendo ‘dalla parte giusta’, entrambi si sentono autorizzati di cadere nella mediocrità della barbarie; nessuna empatia è possibile con i civili “nemici”, ciò che conta è la vittoria dei “giusti”.

Entrambi, in fondo, pensano che «un paio di bombe nucleari» sistemerebbero tutto in poco tempo, anche se solo il cittadino “da social” ha il coraggio di scriverlo senza censurarsi (l’editorialista è solo più cauto nell’utilizzo delle parole).

Che il popolo di Gaza sia vittima di una punizione collettiva, o che subisca una serie non indifferente di crimini di guerra, su di esso grava la colpa di essere il doppio indicibile di Israele. Negli spettatori/commentatori di casa nostra, questa condizione equivale alla perdita di ogni facoltà umana; e così le parole divengono esse stesse la manifestazione di questa disumanizzazione.

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Questa deriva di pensiero e linguaggio è intimamente legata all’aspetto forse più importante dell’attuale ideologia: la lotta tra il Bene e il Male (talvolta declinata con la formula ‘Democrazia contro Autocrazia’ o con altre formule simili).

L’’Impero del Male’, di fronte alla cui aggressività bisogna ‘agire’, dispone di tante maschere (la Russia, la Cina, l’Iran, ora Hamas); spetta all’Occidente contrastarne l’avanzata. Ai promotori di questa concezione non manca la faccia tosta, o forse, più propriamente, sono talmente ignoranti da non coglierne il senso profondo.

Ora, si prenda una frase del genere: «Io credo in una civiltà superiore: quella occidentale, liberale e democratica». È poco più di una boutade, ma ciò che l’autore esprime ha un valore storico immenso: è la traccia culturale più evidente dello stretto legame che esiste tra l’ideologia dominante (liberale e atlantista) e il pensiero coloniale.

L’autore della frase è un noto scrittore e giornalista italiano, in prima linea nell’attacco contro i pacifisti, definiti “utili idioti”, ed oggi impegnato nell’equiparare all’antisemitismo ogni manifestazione di critica al comportamento di Israele. Dunque, si tratta di un rappresentante di primo piano del “ceto riflessivo”.

Ci si chiede, allora, com’è possibile che non conosca «la meschinità» che si nasconde dietro «l’elevazione di certi valori a valori superiori»?

È davvero così difficile rinvenire in quella concezione i tratti tipici del colonialismo e di quell’ideologia che più di ogni altra ne ha estremizzato il pensiero, quella nazista?

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Facendo propria questa concezione, qualche giorno fa il criminale di guerra Netanyahu ha affermato: «Devi ricordare cosa ti ha fatto Amalek, dice la nostra Sacra Bibbia».

Anche in questo caso, il linguaggio diviene l’espressione d’una verità intima del soggetto e della essenza della sua strategia politica; più propriamente, il sintomo di una tendenza genocida.

Infatti, il passo della Bibbia sottinteso da Netanyahu è il seguente: «Va dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini» (Samuele 15:3).

Questa è una delle forme peggiori di barbarie, quella dove l’ideologia suprematista diviene comportamento votato al massacro. (30 ottobre)

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Esiste un piccolo gruppo di “intellettuali” che non cessano di rivendicare il diritto di Israele di distruggere Gaza. Sono molto presenti nei media e sui social, e fanno riferimento a partitini tipo +Europa, alla lobby dei Radicali o a giornalacci come Il Foglio.

Appartengono tutti al campo liberale e atlantista, e sono ferventi sostenitori del suprematismo occidentale; dei veri e propri ultrà della NATO.

Appena qualcuno mette in dubbio le loro ragioni, insorgono come un sol uomo; così è accaduto, per esempio, qualche giorno fa, quando il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha ribadito l’ovvio, ossia che gli attacchi di Hamas del 7 ottobre «non sono successi nel vuoto, il popolo palestinese è stato soggetto a 56 anni di soffocante occupazione».

Adempiendo alla loro funzione di ‘mastini del Bene’, tutti questi solerti “intellettuali” non hanno mancato di farci presente che con quelle dichiarazioni si sposava «la narrazione di Hamas». Falsità assoluta, come facilmente constatabile dalla lettura del comunicato del Segretario Generale delle Nazioni Unite.

Ora, condizione fondamentale per fare gli intellettuali dovrebbe essere quella dell’onestà: ci si può confrontare, anche animatamente, sull’interpretazione di un evento, ma quando si arriva a utilizzare la menzogna ci si pone al di fuori della dignità; si diventa imbroglioni.

Chiunque voglia farsi un’idea dell’ipocrisia e delle contraddizioni di questo gruppo di “intellettuali” deve provare a mettere insieme, una di fronte all’altra, le loro diverse considerazioni su due tra gli eventi più tragici che ultimamente hanno colpito i civili: la guerra in Ucraina e la guerra contro Gaza.

Con un po’ di volontà e di lavoro a ritroso, si possono recuperare le dichiarazioni di ognuno di essi subito dopo il bombardamento di un ospedale, un mercato, una scuola; un’esperienza illuminante.

La realtà è che queste persone non applicano lo stesso metro di giudizio; mentre assolvono Israele, attribuiscono ai bombardamenti russi il bollino del terrorismo di stato.

L’atto è il medesimo, come pure sono medesime le giustificazioni adottate da Russia e Israele (la presenza di postazioni militari nell’edificio civile colpito); entrambi sono palesemente crimini di guerra, ma solo quello russo viene giudicato tale.

Il problema di fondo è l’identificazione di costoro con Israele, in un senso così profondo che umilia la loro stessa intelligenza, sino a sfociare in un fanatismo simile, per aggressività, a quello del miliziano o del soldato più invasato.

Questo atteggiamento, ovviamente, non ha niente a che vedere con le caratteristiche proprie del lavoro intellettuale (metodo, rigore, critica, responsabilità); è altresì assente l’empatia o la pietà per il civile palestinese, ma qui entriamo in un campo che ha più a che fare con una forma di razzismo che con quella della pratica del pensiero.

La loro differenziazione non è altro che la squallida e deplorevole applicazione del “doppio standard”, un vero e proprio delitto intellettuale.

Qualche giorno fa il campo profughi di Jabalia è stato bombardato da Israele; sono 195 i morti accertati e 120 i dispersi. Gli israeliani hanno rivendicato l’attacco, motivandolo con l’intenzione di colpire un capo di Hamas. Per colpire una persona, gli israeliani non hanno esitato a ucciderne diverse centinaia. In tutta evidenza, si tratta di un efferato crimine di guerra.

Come hanno reagito gli “intellettuali” ultrà della NATO? In gran parte addossando la responsabilità ad Hamas. Ora, le leggi che regolano i conflitti armati sono indipendenti dalle motivazioni per cui un paese entra in guerra.

Lo ha detto in maniera esplicita il Procuratore della Corte Penale Internazionale: Israele deve condurre le operazioni militari “in conformità con le leggi e le consuetudini di guerra”; avere subito gli attacchi del 7 ottobre non lo rende automaticamente innocente.

Che piaccia o meno ai nostri “intellettuali” oltranzisti, Israele non può colpire civili o strutture protette, e spetta a Israele “dimostrare la corretta applicazione dei principi di distinzione, precauzione o proporzionalità” in ordine a ogni singolo obiettivo colpito (ospedale, abitazione, scuola, moschea, chiesa).

Uccidere 195 persone per colpire un singolo capo di Hamas non rientrerà mai negli atti consentiti dalle leggi che regolano i conflitti armati; davvero, il crimine di guerra è palese.

Assolvere Israele addossando la responsabilità dei morti civili ad Hamas è un modo, decisamente consolante, di autoassolversi. Ma così facendo, gli “intellettuali” ultrà della NATO cadono “nella peggiore delle trappole della speculazione intellettuale”: ingabbiare il processo conoscitivo nelle conclusioni già decise.

Stando così le cose, il loro discorso non può che esprimere un unico senso: Israele è sempre non colpevole.

Hannah Arendt avrebbe chiamato questo atteggiamento “opportunismo metafisico”: una sorta di “fuga dalla realtà” in una “lotta” in cui i “giusti” non devono fare altro che “unirsi alle forze del bene”, quale che sia il loro comportamento reale.

Ad essi manca quella capacità di essere davvero umani, ossia di pensarsi, allo stesso tempo, “nella nave che affonda” e “nella nave che ha lanciato il missile”. Arendt definisce questa condizione “non particolarmente confortevole”, ed ha certamente ragione; ma è l’unica condizione che un intellettuale – senza virgolette, questa volta – dovrebbe assumere. (4 novembre)

* da facebook

Immagine: The Phillip Medhurst Picture Torah, “Joshua fighting Amalek” (1970?).

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