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Per un New Deal europeo

C’è un problema che assilla la sinistra europea fin dagli anni della crisi del debito greco: come deve agire un governo popolare per evitare che l’UE faccia fare a un’altra nazione la fine che ha fatto fare alla Grecia? Le scelte effettuate all’epoca dai governi greci (sia quello di Papandreu, 2009-11, sia quello di Tsipras, 2015) causarono non solo una grande sofferenza economica ai loro cittadini, ma anche un grave danno politico alla sinistra europea. Secondo molti osservatori avrebbero dimostrato che i socialisti e i comunisti non hanno la soluzione ai problemi che le politiche e i trattati dell’Unione hanno causato ai popoli europei.

Io invece credo che la soluzione ce l’abbiano, e per dimostrarlo voglio proporre un esercizio di fantapolitica in cui ipotizzo che un governo di vera sinistra vada al potere in Italia.

Non bisogna essere un profeta per prevedere che, appena si sa nel mondo che c’è un ministro dell’economia di sinistra, i “mercati” cominciano a giocare al ribasso sul debito pubblico italiano. Le agenzie di rating declassano il nostro debito a spazzatura, la speculazione alza la testa e la situazione diventa difficile da gestire.

A quel punto interviene la Commissione Europea proponendo di usare la troika per salvare l’Italia dal default, chiedendo però che il governo somministri politiche che tranquillizzino i mercati, cioè propini al popolo una medicina “lacrime e sangue” fatta di tagli alla spesa pubblica, aumento delle tasse, riforme delle pensioni, abbassamento dei salari, aumento della disoccupazione e della povertà. Un governo di sinistra non può accettare queste condizioni.

Dovrebbe piuttosto approfittare della crisi per lanciare un forte programma di new deal. Ecco cosa dovrebbe fare secondo me.

New deal: I primi 100 giorni

Il compito più urgente sarà quello di fronteggiare gli attacchi speculativi al debito pubblico. Come primo provvedimento il governo emanerà un decreto di assicurazione dei conti titoli delle famiglie italiane per la parte consistente in titoli di stato nazionali e per un valore non superiore a 200.000 Euro. In questo modo tranquillizzerà i piccoli risparmiatori.

Poi aprirà un credito in c/c del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) presso la Cassa Depositi e Prestiti (CDP) (o la sua controllata Bancoposta), la quale Cassa ha tra i suoi compiti quello di fornire credito alle istituzioni pubbliche e allo Stato. Ricordo che oggi il MEF controlla circa l’84% di CDP e, direttamente e tramite CDP, il 65% di Poste Italiane. Il governo porterà la proprietà pubblica di entrambe le aziende al 100%.

Nazionalizzerà anche la Banca d’Italia (BdI). A sinistra se ne parlava già nel secolo scorso. Nel 2016 è stata presentata dal Movimento 5 Stelle una proposta di legge di nazionalizzazione. Nel 2018 una proposta simile è stata presentata da Fratelli d’Italia.

In seguito al rifiuto del governo di sottostare al diktat della Commissione Europea e di accettare il “salvataggio” della troika, i “mercati” manifesteranno una forte aspettativa di default, i rating verranno portati in zona C e la speculazione si scatenerà. Lo spread schizzerà alle stelle, il che ci permetterà di riacquistare i titoli a bassissimo prezzo.

A questo punto il governo ordinerà a CDP di comprare sul mercato per conto del MEF titoli di stato italiani. L’operazione, almeno in parte, verrà finanziata dal MEF andando in rosso sul suo conto corrente presso CDP. Se il governo si indebita in questo modo, vuol dire che crea moneta.1 Non è base monetaria, non essendo creata dalla Banca Centrale. CDP non è una banca, ma lo è Bancoposta. La moneta da essa creata è moneta bancaria. In pratica il MEF utilizzerebbe CDP come una pseudo banca centrale e le farebbe svolgere alcune delle funzioni che svolgeva BdI prima del “divorzio” del 1981.

L’espansione monetaria verrà utilizzata non solo per finanziare le “operazioni sul mercato aperto” con cui CDP ricomprerà i titoli di stato, ma anche per sostenere una forte crescita della spesa pubblica, in modo da evitare che la crisi finanziaria si trasmetta all’economia reale.

Un’istituzione simile alla CDP è già stata utilizzata in operazioni di finanziamento del governo, ad esempio in Germania, dove la Kreditanstalt für Wiederaufbau (un ente pubblico di cui è proprietario il governo federale per l’80% e i Länder per il 20%) è intervenuta nelle aste dei titoli di stato svolgendo la funzione di prestatore di ultima istanza tipica di una banca centrale.

Acquistava il residuo di titoli non collocati nel mercato primario al prezzo deciso dal governo. Poi li rivendeva gradualmente nel mercato secondario. Nella mia proposta di politica economica CDP svolgerà non solo questo tipo di azione, ma anche un’azione di finanziamento monetario diretto.

Se i mercati portassero i titoli al 20% del valore nominale, per ogni 100 Euro di moneta creata, si estinguerebbero 500 Euro di debito pubblico. A maggio 2023 il debito pubblico italiano era detenuto da: BdI (25,8%), banche italiane (24,5%), altre istituzioni finanziarie italiane (12,3%), istituzioni finanziarie straniere (26,5%) e famiglie italiane (10,9%).

A ottobre 2023 il debito pubblico italiano era di 2868 miliardi di Euro. Ne sottraiamo il 25,8% (la quota detenuta da BdI) e arriviamo a 2.128. La metà è 1.064. Se venisse acquistata al 20% del valore nominale, avremmo bisogno di 213 miliardi di Euro, una cifra più alta del valore del disavanzo pubblico del 2022 (153,5 miliardi di Euro). La liquidità della CDP (circa 150 miliardi di Euro) non sarebbe sufficiente, di qui la necessità di creare nuova moneta.

Durante la crisi BdI svolgerà due funzioni: 1) offrirà o domanderà titoli per stabilizzarne i prezzi attorno ai livelli auspicati dal MEF; 2) rifornirà di base monetaria le banche commerciali.2 Alla fine della crisi, il debito pubblico residuale che si trova nel suo portafoglio verrà annullato, essendo debito di stato detenuto dallo stato.

È possibile che nel giro di 2-3 mesi il rapporto debito/pil arrivi al 60-70%. Dipende dal prezzo a cui i mercati (speculazione, BdI e CDP) spingono i prezzi dei titoli. Comunque andrebbe bene anche se si arrivasse a un rapporto intorno al 90%. Nessuno può prevedere con precisione l’esito finale del processo di mercato in presenza di una crisi, per cui non si può escludere che per arrivare al 90% debba essere necessario praticare un leggero haircut. Ma lo ritengo improbabile.

Va da sé che una crisi del debito come quella sopra descritta non sarebbe una passeggiata tra rose e fiori. Emergerebbero vari problemi, i principali dei quali sono i seguenti: 1) un aumento delle difficoltà finanziarie delle banche, 2) una probabile corsa agli sportelli, 3) una tendenza alla fuga dei capitali all’estero, 4) un crollo della borsa valori, soprattutto del settore finanziario.

Si tenga presente che a marzo 2023 Intesa Sanpaolo deteneva titoli di Stato italiani per un valore che pesava per circa il 7% sugli attivi di bilancio. In Unicredit il peso era del 4,4%, in Banco Bpm del 5,8%, in Bper del 6,6%. Il che vuol dire che queste banche sarebbero in grado di reggere abbastanza bene una forte svalutazione dei titoli di stato italiani. Sembra che le grandi banche si siano preparate da tempo per fronteggiare una crisi del debito pubblico.3 Forse qualche piccola banca imprevidente incontrerebbe difficoltà più serie. E certamente tutte assisterebbero a una forte perdita di valore in borsa per effetto della speculazione. Ebbene il governo interverrà per salvare le banche eventualmente prossime al fallimento. Lo farà sottoscrivendo aumenti di capitale al valore di borsa, e ogni Euro così investito sarà un Euro di proprietà pubblica.

Quanto al secondo problema, già esistono norme di limitazione della quantità di contante che può essere prelevato agli sportelli. Queste norme andranno perfezionate e rese temporaneamente più severe, ponendo limiti alle quantità che possono essere prelevate settimanalmente (anche con bancomat e carte di credito). Allo stesso tempo BdI rifornirà le banche commerciali di base monetaria d’emergenza.

Il terzo problema va affrontato con l’introduzione di severi controlli delle fughe di capitale, cosa fattibile in quanto gran parte delle fughe passano per operazioni bancarie sull’estero. Finché dura la crisi dovrà essere proibito effettuare molti tipi di queste operazioni. La BdI è in grado di verificare le trasgressioni.4

Sul quarto problema c’è poco da fare, salvo approfittare del crollo dei valori per acquistare a prezzi di realizzo parti di proprietà di imprese private che il governo vuole controllare perché le considera strategiche.

Come che sia, tutti e quattro i problemi si risolvono spontaneamente appena l’economia esce dalla crisi finanziaria e soprattutto appena i “mercati” capiscono che la politica economica espansiva del governo ha successo nell’alimentare la crescita del pil mantenendo stabile il rapporto debito/pil.

New deal: i primi 5 anni

La creazione di moneta può essere proseguita nel tempo. Quindi si può fare una politica fiscale espansiva con forte aumento della spesa pubblica.

Per recuperare i 40 anni di stagnazione che ci stanno alle spalle, è necessario che il pil reale cresca al 5-6% l’anno per un po’ di tempo. Così si darà una forte spinta alla crescita dell’occupazione.5

Il disavanzo pubblico resterà elevato. Sarebbe soprattutto disavanzo primario, perché CDP interverrà alle aste dei titoli di stato per stabilizzarne il rendimento al livello deciso dal governo. Con un’alta crescita del pil e un basso tasso di rendimento dei titoli, il rapporto debito/pil tenderebbe naturalmente a diminuire in presenza di un elevato disavanzo pubblico, come dimostro in appendice. Comunque il disavanzo e i metodi di finanziamento (moneta e debito) verrebbero calibrati in modo da far crescere il debito pubblico al 5-6% l’anno (più il tasso d’inflazione) in modo da stabilizzare il rapporto debito/pil.

In forza della legge di Kaldor-Verdoorn la crescita del pil farà aumentare anche la produttività del lavoro, la quale, sommando la componente endogena e quella esogena, potrebbe crescere del 3-4% l’anno. Per innalzare il reddito potenziale forti investimenti (anche in R&D) verranno effettuati dal Ministero dell’Industria (il “Ministero delle Imprese e del Made in Italy” verrà ridenominato così, se non altro in ossequio al senso del ridicolo).

Se i sindacati collaborano, accettando una crescita dei salari reali del 2-3% l’anno (che per i lavoratori sarebbe una manna, rispetto alla tendenza alla diminuzione degli ultimi anni), il costo del lavoro decrescerebbe. Di conseguenza aumenterebbero le esportazioni, contribuendo ad allentare il vincolo estero.

Un possibile punto debole di questo schema di politica economica sta nella bilancia dei pagamenti. Se l’economia cresce a ritmi sostenuti, aumentano le importazioni; se le esportazioni non aumentano in misura adeguata la bilancia commerciale va in deficit e il governo sarà costretto ad abbandonare le politiche espansive.

La crescita dei salari al di sotto di quella della produttività potrebbe non essere sufficiente per equilibrare i conti esteri. Nel qual caso si dovrebbe far ricorso a politiche protezioniste nei confronti dei paesi extraeuropei.

Bisognerebbe escogitare barriere di tipo non tariffario, oppure tariffe difensive (alte nei confronti dei paesi che praticano qualche forma di dumping), oppure accordi commerciali bilaterali che mirino al pareggio delle bilance particolari (ad esempio con la Cina, con la quale nel 2022 abbiamo avuto un deficit commerciale di 41 miliardi di Euro). Una cosa importante da fare per allentare il vincolo estero è una politica industriale di sostituzione delle importazioni.

La politica fiscale espansiva avrà effetti positivi per gli altri ministeri, che potranno attuare vere riforme da lungo tempo auspicate (sanità, scuola, ambiente, edilizia popolare, infrastrutture eccetera).

Il governo dedicherà una parte rilevante del finanziamento alla riappropriazione pubblica delle imprese che operano in condizioni di monopolio naturale e di quelle che producono o gestiscono beni meritori, beni pubblici e risorse comuni. Un’altra parte egualmente rilevante la dedicherà a finanziare l’espansione del settore cooperativo.

Inoltre farà ampio uso politico delle partecipazioni statali per sostenere lo sviluppo e controllare l’inflazione. Ad esempio il MEF detiene (direttamente e/o tramite CDP) il 23,6% di ENEL, il 29,8% di Terna, il 31,3% di Snam, il 32,4% di ENI, il 41,8% di Italgas. Sono tutte aziende che producono o distribuiscono energia.

Queste partecipazioni statali sono pacchetti di controllo.6 Ebbene è ora che il governo si decida a esercitare il controllo. Le aziende in questione dovranno rompere i cartelli in cui di fatto operano e adottare politiche di prezzi bassi, costringendo i concorrenti ad abbassare i loro. Inoltre dovranno fare forti investimenti per accelerare la transizione verde.

Problemi con l’UE

C’è da scommettere che un tale tipo di politica non sarebbe gradito a diversi paesi europei e alla Commissione. Ci criticherebbero perché avremmo fatto politiche fiscali basate su un forte deficit di bilancio, perché avremmo finanziato il disavanzo creando moneta, perché avremmo minacciato l’indipendenza della BdI, perché avremmo elargito aiuti di stato e perché avremmo messo un po’ in difficoltà qualche banca tedesca e olandese.

Il governo italiano reagirà alle critiche avviando negoziati per realizzare una triplice riforma dei trattati:

  1. Bisogna abolire il vincolo sul rapporto deficit/pil: né il 3% né alcun’altra percentuale. Ciò perché, come dimostro in appendice, un elevato rapporto deficit/pil può contribuire alla riduzione del rapporto debito/pil.

  2. Bisogna istituire un sistema di finanziamento federale che faccia sistematicamente ricorso all’emissione di eurobond. Inizialmente una quota del debito dei vari stati sarà mutualizzata. Successivamente parte delle spese nazionali potrà essere finanziata con eurobond.

  3. Bisogna che la BCE assuma tra le proprie missioni sia quella di conseguire la piena occupazione sia quella di fungere da prestatore di ultima istanza per il collocamento del debito pubblico federale.

Durante le trattative il governo premerebbe per ottenere un allentamento immediato del rigore fiscale facendo leva sul fatto di aver dimostrato praticamente che un elevato deficit pubblico, in quanto contribuisce a sostenere la crescita del pil, può far diminuire, non aumentare, il rapporto debito/pil.

Ci sarà un braccio di ferro. Da una parte la Commissione, la Germania, l’Olanda e chissà chi altro faranno quadrato intorno alle vecchie regole e pretenderanno il rispetto della disciplina fiscale e monetaria; dall’altra l’Italia, forse sostenuta da qualche paese mediterraneo, premerà per una riforma coraggiosa dei trattati.

Va da sé che non sarebbe facile riformare i trattati europei in modo da consentire politiche monetarie mirate alla piena occupazione e rapporti deficit/pil sistematicamente e largamente più ampi del 3%. Non parliamo della possibilità di riformarli in modo da far diventare l’Unione uno stato democratico.

Alla fine, se si vedesse che ci avviamo a perdere il braccio di ferro, bisognerebbe prendere in considerazione l’italexit, che potrebbe anche essere brandita come una minaccia: se non si fanno le riforme, l’Italia sarà costretta a uscire. Non sarebbe un bluff. L’uscita dell’UE potrebbe diventare una scelta obbligata per un governo di sinistra che non vuole sottostare ai diktat restrittivi della Commissione, non vuole fare la fine di Syriza e non vuol far fare al popolo italiano la fine di quello greco… A meno che la semplice minaccia dell’uscita del nostro paese non riesca a far mettere giudizio ai falchi tedeschi. I quali potrebbero paventare il rischio che l’italexit sia seguita dalla frexit, dall’espexit eccetera. Se l’UE si disgregasse, la Germania è il paese che ci rimetterebbe di più.

Comunque il governo dovrebbe tenersi pronto a ogni evenienza. Un piano d’uscita andrebbe segretamente preparato da una commissione ristretta composta da tecnici del Tesoro, di BdI e di CDP.

Dopo la chiusura della crisi del debito, se la Commissione Europea ci metterà in procedura d’infrazione, se la BCE aumenterà i tassi d’interesse, se la Germania ci “suggerirà” di rispettare nel modo più rigoroso il nuovo patto di stabilità e di portare il rapporto deficit/pil all’1,5% in 4 anni, insomma se tutto il concertino europeo tenterà d’imporci l’innesco di un processo di altri 20 anni di stagnazione, il governo denuncerà i trattati europei e dichiarerà l’italexit. E lo farà fulmineamente: un venerdì sera c’è la denuncia, il lunedì mattina entra in vigore l’EuroLira.

Dopo l’eventuale uscita dell’Italia dall’UE il governo negozierebbe con la Commissione un regime di libera circolazione delle merci e delle persone in Europa. Su questo punto la Germania ci verrebbe incontro, visto che le catene del valore della sua manifattura si estendono ampiamente in Val Padana.

Inoltre il governo italiano aprirà negoziati per avviare un processo aggregativo mirante alla costituzione di una vera Federazione Europea, democratica e solidale, coinvolgendo inizialmente almeno i paesi dell’area mediterranea. Questa politica la porterebbe avanti comunque, anche se non ci fosse l’italexit. Il new deal dei primi cinque anni, di cui ho trattato sopra, sarebbe meglio che si realizzasse a livello continentale piuttosto che solo nazionale.

Appendice: Come ridurre il rapporto debito/pil aumentando il rapporto deficit/pil

Le variazioni del rapporto debito/pil sono spiegate dalla seguente formula: Δd=(G–T)/Y+[(r–y)/(1+y)]d, con: d=D/Y; D=debito pubblico; Y=prodotto interno lordo nominale; G=spesa pubblica; T=entrate pubbliche; G–T=disavanzo primario; r=tasso di interesse; y=ΔY/Y=tasso di crescita del pil nominale.

Facciamo un esempio: Se y=0,06, r=0,01, d=1,5, G/Y=0,46 e T/Y=0,40, sarà [(r-y)/(1+y)]d=-0,07 e G/Y-T/Y=0,06. Quindi Δd=-0,01. Con un tasso d’interesse dell’1%, una pressione fiscale del 40% e un rapporto debito/pil del 150%, la spesa pubblica e il disavanzo primario possono essere accresciuti a livelli tali da far aumentare il pil del 6%, così che il rapporto debito/pil diminuisca di un punto percentuale.7

Si noti che, nell’esempio, il disavanzo primario è il 6% del pil, quello totale il 7,5%. Si noti anche che non c’è creazione di nuova moneta. Ciò perché lo scopo del presente esercizio è di dimostrare che una politica fiscale espansiva può contribuire di per sé alla riduzione del rapporto debito/pil. Il segreto di questa magia sta nel fatto che le variabili che compaiono nella formula non sono tra loro indipendenti. In particolare, y è una funzione crescente di ΔG: una politica fiscale espansiva fa aumentare il reddito e il suo tasso di crescita.

L’argomento si capisce facilmente assumendo che il bilancio sia in pareggio. In tal caso vale un teorema che stabilisce ΔY=ΔG=ΔT. Più aumenta la spesa pubblica (e le tasse) e più alto sarà y=ΔY/Y.

Ovviamente, per evitare un eccessivo aumento della pressione fiscale, si manterrà un bilancio primario in disavanzo. Allora la politica fiscale sarà ancora più efficace, perché il moltiplicatore della spesa pubblica è più alto di quello delle tasse e maggiore di 1. Dunque, se ΔG>ΔT allora ΔY>ΔG. Se le autorità monetarie lavorano per mantenere basso r, gli aumenti di spese e tasse possono essere calibrati in modo da far sì che (G–T)/Y+[(r–y)/(1+y)]d<0.

Una politica fiscale espansiva ben ponderata fa diminuire il rapporto debito/pil semplicemente perché fa aumentare la domanda aggregata. Nel lungo periodo può farlo diminuire di più se espande gli investimenti pubblici accrescendo il pil potenziale; e ancora di più se l’aumento della domanda aggregata fa crescere molto gli investimenti privati.

Ma c’è di meglio: se tasse e sussidi vengono redistribuiti in modo da eliminare la povertà e ridurre la disuguaglianza dei redditi, s’innalza il moltiplicatore, e quindi aumentano gli effetti espansivi della spesa pubblica.

Inoltre, non solo y, ma neanche r è una variabile indipendente. Trattandosi del tasso di rendimento medio sui titoli di stato, dipende dal rischio di default e quindi è una funzione crescente di d. Più basso è il rapporto debito/pil più basso sarà lo spread e il rendimento medio dei titoli di stato. Certamente r è ancorato ai tassi d’interesse determinati dalla Banca Centrale. Ma c’è una certa variabilità, quale è osservabile nella dispersione degli spread dei vari paesi europei. Ne consegue che, se d decresce, e quindi il rischio di default tende a diminuire, anche r diminuirà.

Ebbene, in una situazione in cui la Banca Centrale o la CDP riescono a mantenere un basso tasso di rendimento dei titoli, una politica fiscale espansiva può innescare un circolo virtuoso del seguente tipo: aumenta la spesa pubblica e il disavanzo primario, quindi aumenta il tasso di crescita del pil; se y>r e l’aumento della spesa è ben calibrato, il rapporto debito/pil diminuisce; così diminuisce anche lo spread e r, il che dà un’ulteriore spinta alla diminuzione del rapporto debito/pil.

Un’ultima osservazione. Se un paese fa parte di un’area economica fortemente integrata, non tutto l’aumento di domanda aggregata generato da un aumento della spesa pubblica si risolve in una crescita della produzione nazionale. Una parte si risolverà in un aumento delle importazioni e quindi in una crescita della produzione dei paesi concorrenti.

Questo fenomeno indebolirebbe gli effetti positivi che una politica fiscale espansiva può avere sulla riduzione del rapporto debito/pil. Perciò è importante che: o le politiche fiscali espansive siano fatte da molti paesi dell’area; oppure il paese che le pratica singolarmente le accompagni con politiche mercantiliste.

*economista, docente dell’Università di Siena

1 Se vuoi fare le riforme, la prima cosa che ti dicono i critici è: “dove trovi i soldi?” è una domanda retorica ma legittima, dati i vincoli e le proibizioni che i trattati europei pongono alle politiche economiche degli stati. Ebbene, con il tipo di politica che propongo i soldi il governo li crea. La seconda cosa che ti dicono è: “se crei moneta causi inflazione”. È un dogma della teoria monetarista, ma è falso. In un’economia con alta disoccupazione la crescita della domanda aggregata fa aumentare la produzione, non i prezzi. L’inflazione, se c’è, è causata dall’aumento dei costi.

2 BdI può creare liberamente base monetaria per rifornire le banche. Può farlo senza indebitarsi se emette una quantità non superiore al livello determinato dal capital key (la quota detenuta nel capitale della BCE). Può emetterne anche una quantità superiore, però indebitandosi sulla piattaforma Target2. Si tenga presente che il saldo italiano in Target2 tenderà a peggiorare durante la crisi del debito, se non altro perché CDP comprerà all’estero una parte dei titoli.

3 Nel 2015 il peso medio dei titoli di stato italiani sui bilanci delle 8 principali banche nazionali era di circa l’11%, con una punta del 17,7% per Banco Bpm.

4 Tra i vari provvedimenti temporanei di controllo delle fughe di capitale si possono considerare: la proibizione dell’acquisto di attività finanziarie all’estero (con l’eccezione degli acquisti di titoli di stato italiani da parte di CDP), l’autorizzazione preventiva per gli acquisti di beni o servizi all’estero, la proibizione dell’apertura di nuovi conti esteri e dei trasferimenti sui conti già esistenti, l’imposizione di un limite mensile massimo ai pagamenti sull’estero con carte di credito, l’imposizione di un limite massimo alla quantità di contante che i turisti possono portare all’estero.

5 Per raggiungere rapidamente la piena occupazione bisogna che la crescita del pil sia forte. In un secondo momento, quando i salari saranno arrivati almeno ai livelli francesi (come conseguenza dell’aumento dell’occupazione e della produttività, oltre che delle riforme del mercato del lavoro che aboliranno ogni tipo di precariato), si può pensare di abbassare il tasso di crescita del pil riducendo l’orario di lavoro. Ridurre l’orario di lavoro quando i salari sono a livelli di fame non farebbe diminuire le ore lavorate, farebbe aumentare il numero di individui che cercano il doppio lavoro.

6 L’attuale governo di destra sta programmando una svendita di azioni di queste imprese. Se la svendita portasse alla perdita di controllo pubblico, il governo di sinistra che sto ipotizzando reagirebbe riacquistando il controllo.

7 I valori dell’esempio sono prossimi a quelli che vigevano in Italia durante il rimbalzo post-COVID.

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4 Commenti


  • Eros Barone

    In genere apprezzo i ragionamenti controfattuali perché, esplorando determinate ‘possibilità reali’, tengono conto delle contraddizioni che agiscono nella dinamica delle situazioni storiche e non riducono la realtà esistente all’effetto meccanico di una causa predeterminata. Sennonché il modello futurologico di “New Deal europeo”, qui tratteggiato da Screpanti, il quale non è nuovo ad esercizi più o meno sofisticati di immaginazione utopistica; tale modello, dicevo, oltre ad essere proiettato in un futuro indefinito (che però somiglia stranamente ad un progetto di politica mercantilista tedesca applicato all’Italia), è una vera e propria ucronia del “se…allora”. Il suo principale difetto non è tanto quello dovuto alla non realizzabilità di un, peraltro ossimorico, “New Deal europeo”, ma all’assenza in esso di qualsiasi riferimento al tema centrale della pianificazione delle attività produttive (tema che ovviamente non coincide con il ruolo salvifico attribuito, nel modello italo-keynesiano di Screpanti, alle partecipazioni statali e a un mitico “governo di sinistra”). Capisco che, in assenza di un “moderno Principe”, ci si debba rivolgere, per dirla con Machiavelli, al “men tristo” (= Schlein + Conte), ma proprio l’esperienza della Grecia, evocata all’inizio dell’articolo come anti-modello, dimostra non solo l’infecondità di quella ‘via’, ma inficia anche la sua variante più o meno astuta e più o meno abile, qui argomentata, con l’’italexit’ come arma di ricatto, da Screpanti. Al quale, ricordando anche un suo lungo articolo di qualche anno fa incentrato su quella categoria kautskiana di superimperialismo che è stata miseramente falsificata dagli eventi economici e bellici successivi, suggerisco sia di non esagerare con le “ricette per l’osteria dell’avvenire” (meritano di essere citate pure le ‘ricette’ da lui prescritte per attuare un sistema elettorale alternativo a quello esistente) sia di attenersi, più di quanto non sia solito fare, allo studio concreto del “movimento reale [‘reale’!] che abolisce lo stato di cose presente”.


  • Ernesto Screpanti

    Ha ragione Barone: sono un utopista che ama scrivere ricette per l’osteria dell’avvenire. Pensate che ho osato immaginare una politica che porti alla piena occupazione, alla riduzione dell’orario lavorativo, a una riforma del diritto del lavoro che elimini il lavoro precario! A mia discolpa posso dire che ho cercato di farlo restando – per dirlo con Machiavelli – nell’ambito di ciò che è “ragionevolmente possibile”: tutte le mie ricette di “programma minimo” riguardano provvedimenti realizzabili qui e ora, data la tecnologia disponibile, mancando solo la volontà politica. Ma devo ammetterlo: non mi sono spinto a diventare così realista da affrontare il “tema centrale della pianificazione delle attività produttive”. Non so cosa intende Barone con questa espressione, ma se si riferisce a qualcosa di simile a un sistema di capitalismo di stato con una pianificazione centralizzata che realizza l’autocoscienza dell’umanità, allora bisogna dar ragione a Mina quando cantava “ma che bontà, ma che bontà, ma che cos’è questa robina qua?”


    • Redazione Contropiano

      da Eros Barone.
      Eros Barone.

      “Robina” la pianificazione, che è l’essenza del socialismo/comunismo? Ma in quale Olimpo, lontano dalla storia e quindi dalla “realtà effettuale” di machiavelliana memoria, vive Screpanti?
      E’ proprio il contrario, poiché la pianificazione centralizzata è una caratteristica imprescindibile del socialismo ed è coessenziale alla (e costitutiva della) instaurazione della egemonia del proletariato.
      Sennonché Screpanti, tutto preso dal suo “programma minimo” per un “governo di sinistra”, dimentica un piccolo particolare: che persino un programma onestamente socialdemocratico come quello da lui elaborato è irrealizzabile senza la conquista di quel potere politico di Stato che si trova, come anche lui forse sa, nelle mani della borghesia capitalistica, e che non si dà alcuna conquista del potere politico di Stato senza una rivoluzione socialista che abbatta quel potere di classe e lo sostituisca con un potere di classe radicalmente alternativo La sua posizione risulta invece più vicina ad una concezione (se non antistatalista ed anarchicheggiante) democraticista e autogestionaria di stampo menscevico, che fa leva sull’idea secondo cui la proprietà statale socialista non sarebbe l’espressione più avanzata di rapporti di produzione collettivistici, ma, al contrario, una nuova forma di sfruttamento, in genere definita con il termine impreciso di “capitalismo di Stato” (ircocervo concettuale, questo, ben distinto dalla categoria leniniana indicata con lo stesso sintagma nel periodo della NEP).
      Così, la concezione apertamente anticentralista di Screpanti oblitera il fatto che Lenin, ben prima del primo piano quinquennale, fece approvare la statalizzazione della terra, dei boschi e delle acque nell’area controllata dal potere sovietico; che fin dal dicembre del 1917 il potere bolscevico aveva proceduto alla statalizzazione delle banche; che ancora Lenin, fin dal 1918, aveva statalizzato gran parte dell’industria e delle miniere russe.
      Ma non basta: come risolvere in un regime socialista, senza una scelta chiara e decisa a favore del centralismo e della pianificazione, la contraddizione tra interessi generali della collettività nazionale e interessi corporativi di singole frazioni dei lavoratori?
      Infine, è necessario ribadire che la concezione apertamente anticentralista, più o meno imbellettata dalla crema retorica di un democraticismo piccolo-borghese, disconosce il fatto che l’ostilità ideologica verso la proprietà statale rappresenta l’orientamento politico-sociale teoricamente adottato e sistematicamente applicato dalla borghesia negli ultimi decenni al fine di ridurre il peso delle imposte pubbliche sui patrimoni e sui profitti e di scatenare la concorrenza più rovinosa tra le diverse frazioni dei lavoratori salariati (privati e pubblici, autoctoni e immigrati, meridionali e settentrionali, stabili e precari, pensionati e attivi, anziani e giovani ecc.).
      Riassumendo, la statalizzazione delle forze produttive è il primo passo per giungere alla socializzazione delle forze produttive e risolvere, seguendo un processo storico-dialettico, una delle contraddizioni fondamentali – e, nella fase di transizione, quella principale – del modo di produzione capitalistico: la contraddizione tra la pianificazione nella fabbrica e l’anarchia nel mercato (contraddizione che si risolve estendendone il lato dialetticamente progressivo, cioè la pianificazione, a tutta la società). Così, la “regolamentazione socialmente pianificata della produzione” di engelsiana memoria (cfr. l'”Anti-Dühring”), cioè la pianificazione socialista, pur non determinando da sola il passaggio alla fase socialista/comunista, ne è la condizione di base essenziale. La pianificazione socialista si configura, in altri termini, come la spina dorsale di una società nuova: espressione di una libertà conquistata e mezzo per consolidarla ed estenderla senza posa.
      Una società, per dirla con Gramsci, in cui tutti dirigono o controllano chi dirige. In conclusione, il massimo della centralizzazione statale (laddove questa è indispensabile per mettere fine allo “sviluppo ineguale” proprio del sistema capitalistico), insieme con il massimo del controllo popolare (laddove questo è altrettanto indispensabile per coinvolgere tutti i lavoratori nella pianificazione ed elevare la loro coscienza in quanto individui che sono “esseri sociali”).


  • Ernesto Screpanti

    Q. E. D.

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