C’è una democrazia, tra i paesi dell’Unione Europea, di cui sovente si tende a dimenticarsi. Se ne scordano soprattutto tutti quegli europeisti d’Europa che non perdono occasione di implorare i “diritti umani” in giro per il mondo: in casa nostra, s’intende, giocano a fare i primi della classe i liberal-democristiani del PD; per le correnti più a destra di loro, per i nero-bruni della reazione italica, la questione rientra addirittura nelle prescrizioni statutarie.
Non dubitiamo che, anche nel caso in questione, le prefiche della democrazia intermittente abbiano giudicato inadeguati i compensi per la loro opera e, perciò, se ne rimangano tranquille e silenziose, sedute al focolare “democratico”.
C’è dunque una “democrazia europea” in cui, da una parte, lo scorso gennaio, in una speciale seduta del Sejm, la Presidente Dalja Gribauskajte ha attribuito onorificenze di stato (Premio alla Libertà) agli ex “fratelli dei boschi”, formazioni armate nazionaliste e filo-naziste attive nei Paesi baltici fino al 1953; e in cui, di contro, da mesi, è in galera l’attivista di sinistra lituano Algirdas Paleckis, nipote (questo, tra parentesi) dell’ex Presidente del Soviet supremo lituano Justas Paleckis, accusato, come tanti altri esponenti della sinistra lituana, di “spionaggio” a favore della Russia.
La denuncia della detenzione di Paleckis, del resto non nuova, è venuta negli ultimi giorni anche da parte del piccolo OKP (Partito Comunista Unificato) russo, che ricorda come in Lituania stia sempre più inasprendosi la campagna di persecuzione penale contro attivisti ed esponenti politici sgraditi al potere. A quattro mesi dalle elezioni presidenziali, le autorità di Vilnius stanno moltiplicando gli arresti (si parla di oltre 20 persone, cittadini lituani e russi) in relazione al processo alle “spie russe”, mentre gonfia parallelamente l’isteria antisovietica. In galera dalla fine di ottobre, appunto anche l’esponente del OKP ed ex leader del Fronte Popolare Socialista di Lituania, Algirdas Paleckis, insieme ai cittadini russi Jurij Mel e Valerij Ivanov. Stessa sorte per l’ex agente della polizia di Riga Konstantin Nikulin e per il figlio dell’ex Primo ministro lituano Vajdotas Prunskus; illegalmente privato del mandato e finito sotto processo, il consigliere comunale di Klajpeda, Vjačeslav Titov.
Anche se accentuatasi negli ultimi tempi, la campagna terroristica contro i comunisti e la sinistra in generale, nei Paesi baltici, non è certo una novità: va avanti da almeno trent’anni (e le avvisaglie si erano manifestate già in epoca sovietica) ma non ci sembra di aver udito, in tutto questo tempo, “urli e grida” disperate dei cappellani della democrazia, che oggi dispensano acquasanta, ad esempio, per i diritti umani della “opposizione democratica” in Venezuela, omeliando, secondo il verbo apostolico di Graziano Delrio – di essere “dalla parte dei diritti e della democrazia … determinati in questa battaglia“.
Nel caso specifico di Algirdas Paleckis – ex funzionario del Ministero degli esteri, ex segretario della missione diplomatica lituana a Strasburgo, ex deputato, ex vice-sindaco di Vilnius – non si tratta né del primo processo, né della prima carcerazione. Nel 2011, aveva suscitato rumore il procedimento a suo carico per quella frase “i nostri hanno sparato sui nostri”, a proposito dei morti del gennaio 1991 alla torre della televisione di Vilnius, uno dei primi e più drammatici scontri cruenti tra URSS e “indipendentisti” baltici del “Sajudis”.
Ma, forse ancor più indicativo del clima lituano, il procedimento contro Vjačeslav Titov, accusato di “insulto alla memoria” di uno degli esponenti dei “fratelli dei boschi”, Adolfas “Vanagas” Ramanauskas e di “incitamento alla negazione dei crimini dell’URSS”. Questo, nonostante egli non abbia fatto altro che ripetere testimonianze di pubblico dominio e cioè che tra il 1944 e il ’53 i “fratelli dei boschi” massacrarono civili lituani, in un numero che a suo tempo la presidente Gribauskajte, quando era ancora membro in vista del PCUS, aveva quantificato in oltre 13.000, ma che, secondo stime recenti, supererebbero le 25.000 nella sola Lituania, tra civili, funzionari di partito, militari dell’Armata Rossa, oltre a circa 900 persone in Estonia e più di 2.000 in Lettonia. D’altronde, Titov si era basato sulla sentenza del 1957, che aveva condannato a morte Ramanauskas; ma le autorità lituane si attengono ora al “principio” secondo cui “il caso di Ramanauskas era stato falsato e non ci si può basare sugli argomenti dei suoi carnefici sovietici”. Baltnews.lt scrive che Vjačeslav Titov è sempre stato tra le persone “scomode” e già nel 2015 era stato tartassato, allorché aveva definito la Lituania uno stato fascista.
Ora, l’approssimarsi delle elezioni spinge il potere lituano a “consolidare la democrazia” a senso unico. Del resto, tra saluti nazisti in pubblico e istituzionalizzazioni delle sfilate di veterani delle Waffen SS in tutti e tre i Paesi baltici, la Lituania è quel fiero esponente NATO in cui l’esperienza dei “fratelli dei boschi” è presa a modello per l’allestimento di “corpi partigiani” da mobilitare contro “l’aggressione russa”. E’ quel paese democratico in cui il funzionamento delle prigioni segrete della CIA è stato denunciato dalla Corte europea per i diritti dell’uomo e dalle Nazioni Unite. E’ quel paese atlantico-europeista in cui dal 1992 è vietata l’attività del Partito Comunista, dichiarato “organizzazione criminale, che ha favorito l’URSS nell’occupazione della Lituania”.
Ma, trattandosi di un paese europeo e NATO, i liberal-democristiani e i nero-bruni nostrani tacciono benevolmente, ansiosi, chi più, chi meno loquacemente, di adottare sul suolo italico gli stessi provvedimenti contro i comunisti.
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