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Il muro che nasconde gli orrori di Gaza

“Mentre i servizi concernenti la vittima meritevole sono ricchi di dettagli cruenti e danno voce all’indignazione e all’invocazione della giustizia, quelli relativi a vittime non considerate meritevoli di particolare attenzione hanno un tono pacato e sembrano fatti apposta per spegnere le emozioni ed evocare amare considerazioni filosofiche sull’onnipresenza della brutalità e sul carattere intrinsecamente tragico della vita umana.” 

(“La fabbrica del consenso. La politica e i mass media” , Edward S. Herman e Noam Chomsky)

La zona d’interesse“, che ha vinto l’Oscar quale miglior film in lingua straniera, narra del direttore del campo di concentramento di Auschwitz che abita con la sua famigliola in una splendida tenuta adiacente il campo di concentramento. Soltanto un muro li divide dal lager e dagli orrori che lì dentro si stanno consumando.

Gli occhi (e la cinepresa) non vedono, ma le orecchie percepiscono in lontananza i suoni delle fucilazioni e le grida di chi tenta la fuga disperata. Per tutto il film non si vede mai quello che succede dietro il muro e lo spettatore è in perfetta simbiosi con la vita della famiglia del direttore del lager. Voltarsi dall’altra parte, ignorare le grida, non voler guardare oltre il muro, per tantissimo, troppo tempo.

Il regista del film, Jonathan Glazer, britannico di origine ebraica, al momento della premiazione ha affermato: “Tutte le nostre scelte sono state fatte per riflettere e confrontarci con il presente, non per dire guardate cosa hanno fatto allora, piuttosto guardate cosa stiamo facendo adesso. Il nostro film mostra dove la disumanizzazione porta al peggio, ha plasmato tutto il nostro passato e il nostro presente.

In questo momento ci troviamo qui come uomini che rifiutano che il loro essere ebrei e l’Olocausto vengano strumentalizzati da un’occupazione che ha portato al conflitto tante persone innocenti. Che si tratti delle vittime del 7 ottobre in Israele o dell’attacco in corso a Gaza – di tutte le vittime di questa disumanizzazione – come possiamo resistere?”.

E così, ieri, oltre mille firmatari di origine ebraica tra creativi, dirigenti e professionisti di Hollywood, hanno sottoscritto una lettera aperta in cui si dissociano fermamente dal discorso del regista de “La zona d’interesse“. Perché?

Perché qualsiasi messaggio rivolto contro il muro che i grandi mezzi di comunicazione occidentali (social media compresi) hanno alzato per nascondere l’orrore del genocidio che Israele sta compiendo a Gaza dev’essere oscurato, schiacciato, delegittimato in nome dell’Olocausto, ovvero, di ciò che, più precisamente, lo storico, politologo ed attivista statunitense di origine ebraica, Norman Finkelstein, in un noto saggio pubblicato 24 anni fa, ha chiamato “l’industria dell’Olocausto“: lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei statunitensi della memoria dell’Olocausto nazista per meri fini di vantaggio economico e politico ma, soprattutto, per garantire sostegno incondizionato allo Stato di Israele attraverso la propria forte influenza su ambedue i partiti presenti nel Congresso degli Stati Uniti d’America.

E ”l’industria dell’Olocausto” funziona perfettamente. Prova ne è il fatto che, dopo più di cinque mesi di bombardamenti sulla popolazione civile di Gaza che hanno causato più di 30.000 morti di cui più della metà bambini, al netto delle dichiarazioni di facciata, gli USA non hanno davvero mai messo minimamente in discussione il proprio sostegno militare, finanziario e politico ad Israele.

E il muro che nasconde gli orrori di Gaza è ancora in piedi, nonostante le urla e le immagini del massacro che riescono a trapelare in rete scansando blocchi e censure.

Immagini “clandestine” girate dai reporter ancora vivi e dai civili stessi che, però, non intaccano minimamente la narrazione ufficiale che viene fornita quotidianamente dai governi e dai mass media occidentali i quali continuano – ostinatamente ed assurdamente – a chiamare “guerra” e/o “conflitto” ciò che, il 26 gennaio scorso, la Corte internazionale di giustizia dell’ONU ha definito, senza mezzi termini, un genocidio.

La quotidiana banalità del male.

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