L’odore del sangue, della sconfitta, della violenza del nostro sguardo indifferente o schifato. Si inizia per voglia o per sfortuna. Il perdersi e confondersi nel viavai senza volto dei treni. Un capriccio: “oggi non mi lavo, oggi non vado a lavorare, oggi me ne sto a zonzo”.
Si inizia per incapacità di reggere al peso degli eventi, che sia un dolore troppo dolore per essere condiviso, o una fragilità. La perdita di un centro di gravità permanente o un virus che indebolisce il cervello o, ancora, entrambi: la trasformazione da Essere Umano in “altro”, scava goccia a goccia una distanza incolmabile tra noi e loro.
Il solco poi si allarga, il non lavarsi oggi, diventa non lavarsi mai. Si perde casa, identità, famiglia, scopo e più si perde, più una vergogna solida assale e paralizza. Fino a decomporre la mente, fino a fargli perdere le parole, i ricordi, le danze quotidiane di ogni apparenza possibile.
Poi il botto, il buio nella mente, che cancella ogni dignità, ogni speranza. La fine è nota: la stazione, coperte umide di piscio, il nero, il freddo che morde dentro e la morte come unica dolcezza per spegnere quel poco di vita che resta.
Il triangolo di Karpman vede nel ruolo di vittima, carnefice e salvatore il meccanismo principe delle relazioni disfunzionali. Ma nelle società cannibali del turbocapitalismo è l’interscambiabilità nevrotica, tra questi ruoli, che crea delle criticità talmente profonde da annientare ogni forma di fragilità.
I clochard, in tal senso, sono come “effetti collaterali” di una nuova povertà che assume sempre più i connotati della super alienazione. Di un liberalismo talmente tanto selvaggio da decretare pene di morte ed ergastoli per ogni tipo di disfunzionalità.
Il ruolo dei volontari e del Terzo Settore, in generale, non si sottrae a questo gioco al massacro che acuisce e cronicizza, rendendo variabili fisse del loro business della bontà. Del resto, ad esempio, un tossico è valore aggiunto prima per il suo spacciatore, quanto poi per il suo disintossicatore. Così, senza voler generalizzare, anche molte meravigliose esperienze del volontariato acquistano i ruoli di carnefici.
Lo stesso Welfare, stritolato dalle demenzialità burocratiche e dai continui tagli alla spesa Pubblica, finisce per limitarsi ad individuare nei fenomeni estremi di marginalità un problema di decoro o di ordine pubblico. È bene ricordare che, quando una esistenza si incasina, la residenza è la prima cosa che s’incasina, ma nell’Italia delle Regioni-Statarelli quest’aspetto elementare non viene preso in considerazione.
Teoricamente, quindi, un barbone residente a Trieste, pur deambulando a Caltanisetta, deve usufruire dei servizi attivi nella sua residenza ufficiale, dove casomai non è presente da decenni. Oppure deambulare dalle pie suorine, anche per una visita medica.
Stesso discorso per l’ISEE, attestato di consistenza economica individuale, difficile da ricostruire per queste esistenze. I debiti, ad esempio, nelle progressive cartolarizzazioni diventano “movimenti” bancari difficilissimi da rintracciare. Per non parlare dei clandestini con problemi di fragilità psichiatrica: sono praticamente invisibili. I dannati della Terra.
Il mondo del volontariato appare appiattito sulla conquista del proprio gettone di presenza e, a furia di dialogare con il potere, finisce per diventarne graziosa ancella. In questo anche il mondo cattolico, tra carriere politiche, progettini di bontà finanziati e aneliti celestiali finisce per recitare un ruolo di complicità al neofascismo degli ultimi 30 anni.
“Madonna mia, prendi il mio cuore e dammene uno nuovo, a figlio” … recita una canzone: non “aggiustami il cuore”, oppure “muta il cuore di quel signore”. È il proprio cuore che va cambiato.
Nella cultura popolare un inno al sovrannaturale è sempre intimissimo: il Dio dei pescatori che pregano per portare il culo e la barca al porto. Nella cultura clerico fascista nella quale siamo imbevuti, abbiamo cancellato il valore della intimità. Quel “Tu hai mutato il mio dolore in danza” che trasforma le prove della vita in opportunità personali e collettive.
Dinamismo insito nella esistenza: vero che ognuno è solo sul cuor della terra e può essere trafitto da un raggio di sole, ma anche colpito da un fulmine o scoprire di essere fragile, malato, povero. Che sia uno stupro o un fallimento è il senso di colpa, la propria inadeguatezza che aggiunge al trauma del passato, un’ulcera quotidiana di solitudine che diventa ogni giorno più atroce e più invalidante del trauma stesso.
I barboni sono la punta dell’iceberg delle nuove povertà e il simbolo drammatico di una società che non concede seconde chance a nessuno. Una commessa a quarant’anni è vecchia e, se licenziata, disoccupata rimane a vita, nonostante gli slogan dei migliori sulla sua occupabilità. Scivola via e non sempre trova qualcosa a cui aggrapparsi, prima del precipizio.
Le nobili e meravigliose esperienze di volontariato o quelle del Terzo Settore, purtroppo, non si discostano da questo copione sospeso tra soft massonerie endemiche e superficialità imbarazzanti. Una mensa dei poveri andrebbe valutata positivamente quando diminuisce il numero dei pasti offerti, viceversa assistiamo a veri e strazianti take a way: Esseri Umani forniti di cibo in vaschette, che poi divorano a terra, esattamente come cani.
È la colpa di essere Ultimi, di dover restare Ultimi per bilanciare la redenzione terrena o celeste del volontario/operatore. Non ci lasciamo intimidire dalle buone intenzioni di alcune iniziative, nello stesso concetto di gratuità si possono nascondere i peggiori ismi: narcisismi, carrierismi, egocentrismi…
Una recita ossessiva per cui si esce dal dormitorio alle 8, si deambula fino alle 13, si mangia a terra come cani, si deambula fino alle 18, poi si va dalle suorine per il posto letto, ubriachi ma non troppo: altrimenti si dorme in strada. Un tempo vuoto, infinito, ripetitivo che finisce di annientare l’Uomo e per sommare problemi a disfunzioni, malattie a fobie, dipendenze a disturbi psichiatrici: Uomini perennemente in fila con la mano davanti.
La cronicizzazione è la più feroce forma di fascismo, perché impedisce quello sviluppo che la nostra Costituzione ci garantisce. Assicurarsi la propria redenzione portando un panino alla Stazione è un gesto splendido e altissimo, ma a volte non influisce positivamente nello scoprire le potenzialità di chi lo riceve, proprio perché verticale, non “intimo”.
Lo stesso processo di decomposizione avviene lentamente: quelle spirali che, simili a buchi neri, inghiottono intere esistenze. Faccio un esempio. Il signor x buca una ruota. Problema banale, eppure ha fretta o non se ne accorge o, ancora, non sa cambiarla. Così continua a guidare. Lentamente si scassa tutta l’auto: si fa male e fa male a chi gli sta intorno. Risultato: una carcassa d’auto abbandonata che, ogni giorno, aumentala la distanza da una possibile funzionalità.
Un gradino dopo l’altro si subiscono saccheggi, burocrazie, malesseri e, da una ruota bucata, si diventa carcassa di nulla. La logica redentiva porta alla carcassa d’auto un panino o una coperta. La logica repressiva vede nella stessa carcassa d’auto un problema di decoro urbano o di sicurezza: è un Uomo quella carcassa.
Ma perché ci sono i barboni?
Un bambino ucraino mi ha fatto questa domanda. Non sapendo come rispondere ho, a mia volta, fatto io una domanda a lui: “Perché in Ucraina non ci sono?” No, mi ha risposto, vivono nelle case abbandonate o nelle campagne.
Chissà se è vero, ma mi è parso strano che un bambino che scappa dalla miseria e dalla guerra, le trovi poi nelle nostre stazioni. Così, a rifletterci bene, ho pensato che in un anno di Brasile, dove vivevo in una favela, non ho quasi mai visto barboni. Tutto sommato dentro una favela, tra reti sociali, economia di scambio e sistemazione possibile, lo scivolare nell’oblio diventa assai più difficile che nelle nostre opulenti città.
Secondo il mio amico bambino ucraino, i barboni esistono perché gli danno il cibo. Bingo: è esattamente la teoria negazionista dei migliori rosa confetto, per la quale elimini la solidarietà e il problema sparisce. Si diventa, secondo questa filosofia, barboni per poter scroccare il panino al volontario. Basta, quindi, eliminare il volontario e il povero sparisce.
Che siano rapporti d’amore o di lavoro, essere mutati in oggetti è, per molti di noi, scontato. Quindi anche la comparsa di Rifiuti Umani non Riciclabili rientra nelle potenzialità che noi come società tolleriamo. Il tritacarne del turbocapitalismo finisce per trasformare lentamente un sofferente in un devastato, un povero in un pazzo, un disoccupato in un drogato, un detenuto per reati minori in ergastolano.
È il meccanismo della cronicizzazione delle marginalità atto, innanzitutto, a farci dimenticare i ritardi ad affrontare queste devastazioni, perché quando le vediamo sono già troppo profonde per essere affrontate. Atto a trasformare il marginale in un volano di consenso, di campo di battaglia ideologico e ottuso, del pro e contro, quando è già tardi per essere sia pro che contro. Atto a trasformare il marginale in una grande occasione di business e carriera: tanto si sa, dove ci sta poco da fare, si può anche fare finta di fare.
Il marginale assume così il volto della marginalità che noi gli imponiamo e ci occupiamo di lui solo quando ci accorgiamo che esiste, perché ci dà fastidio, ci insozza il marciapiede, ci rovina il paesaggio. Ma non si diventa barboni in un giorno. Lo sforzo collettivo è pretendere l’individuazione di spazi di povertà possibile, dove casa, socialità e sopravvivenza, svolgano un meccanismo di salvaguardia della Dignità Umana.
Immaginate un cubo di Rubik, dove per una serie di variabili impazzite, ogni incastro diventa difficilissimo. Alla lunga l’usura e la disperazione portano allo scolorimento dei colori e così non solo la risoluzione dell’enigma è ardua, ma anche impossibile e quasi inutile. Nel lasso spazio-temporale nel quale le esistenze si rompono, entrano in ballo tanti attori maligni, ognuno con la sua droga e il suo degrado: trappole di veleno e disfunzionalità che aggrovigliano sempre di più chi è caduto.
Un gioco di maschere, di specchi rotti, di disservizi sanitari, dove li affoghiamo nella impotenza. Rimane solo una verticalità che indica sopraffazione. È la logica della monetina lanciata a terra che dimostra, vero, una generosità da chi la lancia, ma è intrinsecamente anche una umiliazione per chi la raccoglie.
Il problema, come al solito, è l’annullamento totale e coatto che l’Io del malamente deve subire per assecondare la necessità di standardizzare gli interventi dell’Io buono. Che sia un rapporto tra persone o tra persone e Istituzioni, poco cambia.
Questi meccanismi de-umanizzanti tendono a trasformare l’Uomo in cosa e, quindi, in oggetto da possedere, analizzare, rendere numero per essere inserito in un foglio Excel. Gli ospedali, ma più in generale, tutti i luoghi delle fragilità: dagli ospizi ai centri di accoglienza per extra comunitari, dalle Comunità di recupero per tossici, alle mense assumono quindi logiche e comportamenti troppo simili a quelli dei lager.
Quando ho fatto l’Obiettore di Coscienza, lavoravo in un centro per minori a rischio, dove il “rischio” accomunava situazioni diversissime: dal bambino violento che aveva fatto una rapina a mano armata, a quello che aveva subito una violenza carnale. Un frullatore dove si finiva per danneggiare entrambi.
Spesso, trauma fatto o subito, scompare nelle gerarchie della bontà, il più delle volte legittimato da una emergenza costante, ma anche da una volontà politica precisa che impone questa emergenza, per nascondere una terrificante superficialità. Come quando si sente parlare di “emergenza freddo” per i senza fissa dimora, come se il freddo d’inverno fosse una improvvisa novità.
L’unica ricetta che i nostri saggi sanno elaborare è la deportazione forzata dei clochard. Come se uno nascondesse i piatti sporchi nella credenza, sperando di mantenere la cucina pulita. La logica della “soluzione finale” nazista era più o meno la stessa: quella “cosa” mi infastidisce e quindi la elimino. Il dolore è, invece, una enorme opportunità per la società, a patto però di accettarlo, di guardarlo in faccia, di affrontarlo giorno per giorno.
Gli alieni delle stazioni sono l’opportunità per riscoprire una tenerezza per il loro amore verso i treni che volano via. Il fondersi e confondersi nei volti anonimi dei passanti: fino a liquefare la propria identità, in un infinito dolente ma metafisico. L’ultimo e disperato tentativo di difendersi dall’orrore e dalla vergogna, prima di esserne sommersi per sempre. È il mistero della vita, del sole dei morenti, che cerca di rimandare l’appuntamento con ogni nulla, anche il nostro.
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Linda
analisi davvero eccellente di un argomento così complesso,: turbocapitalismo- processi di reificazione- logiche redentive e logiche repressive ed infine il senso del dolore dal quale si potrebbe tanto imparare se non lo si fuggisser. Grazie.