Fermare il genocidio, saldare l’opposizione al governo Meloni contro guerra, miseria, sfruttamento.
Scriviamo alcune considerazioni di carattere generale mentre siamo impegnati nelle mobilitazioni universitarie e studentesche da Torino a Bari: il movimento dell’Intifada studentesca, che ha riacceso il conflitto negli atenei di tutto il mondo occidentale, ha avuto il merito di ottenere piccole e grandi vittorie grazie allo strumento vertenziale del boicottaggio accademico ma questo non può bastare e bastarci.
La manifestazione nazionale contro il Governo Meloni del 1° giugno e l’assemblea nazionale del 2-3 giugno a Roma saranno il primo banco di prova del capitolo italiano di questo nuovo movimento giovanile e universitario. La sfida è chiara: o sapremo dotarci di una strategia e di una comprensione più ampia nell’attuale fase di forte cambiamento storico oppure il rischio è quello di disperdere le forze e le energie accumulate in mesi di lotte e di mettere in discussione l’avanzamento ottenuto nei rapporti di forza con le istituzioni universitarie e governative nel nostro Paese.
Il dato da cui partire è sicuramente la conclamata crisi strutturale del Modo di Produzione capitalistico che si manifesta in maniera cristallina nella tendenza alla guerra sempre più accentuata e ricercata dalle classi dirigenti occidentali. Basti vedere e sapere leggere, in ultimo, l’invito di Stoltenberg agli alleati Nato che forniscono armi all’Ucraina a porre fine al divieto di usarle per colpire obiettivi militari russi.
Comprendere la crisi del capitalismo occidentale e le sue conseguenze, anche in termini culturali e ideologici, non può e non deve relegarci però a un atteggiamento attendista: la Storia ci ha dimostrato che, seppur pieno di contraddizioni interne, il capitalismo non può crollare da solo ma, anzi, è in grado di sfruttare i suoi stessi limiti e di utilizzare gli strumenti più crudeli e cinici (fino a giustificare i genocidi) pur di salvare un modello sociale fondato sul profitto e sullo sfruttamento dell’Uomo sull’Uomo e sulla natura.
Ben vengano quindi i movimenti “di opinione”, l’indignazione di stampo morale ed etico così come le diverse forme di controinformazione e di controcultura sulla guerra e il genocidio in atto, ma oggi più che mai serve uno sforzo collettivo per costruire un movimento di classe reale che abbia un progetto e una prospettiva generale, capace di avere una funzione egemonica e di avanguardia su settori ampi della popolazione e delle nuove generazioni.
In questo quadro è chiaro che l’irruzione nello scenario politico internazionale dell’irrisolta questione palestinese ha avuto l’effetto di confermare e palesare le volontà criminali e guerrafondaie dell’Occidente in crisi che, in piena violazione anche dei più elementari diritti umani, sta continuando a sostenere politicamente e militarmente lo stato sionista e genocida di Israele.
La questione palestinese parla a tutti noi non solo perché dimostra che resistere è possibile ma anche perché delimita in maniera chiara ed evidente i due lati della barricata, anche all’interno del mondo della sinistra nostrana. Di fronte alle iniziali prese di distanza dopo i fatti del 7 ottobre fino addirittura ai balbettii sulle parole ‘genocidio’, ‘occupazione’ e ‘resistenza’ da parte del variegato arcipelago della sinistra, le decine di migliaia di persone che sono scese in piazza per la Palestina libera rappresentano uno spacco della società variegato ed eterogeneo senza rappresentanza non solo in termini elettorali ma politici e di prospettiva.
Ci sono ampi pezzi di comunità accademica e di società in senso lato con cui oggi, “grazie” alla crisi di egemonia della borghesia occidentale, possiamo parlare e portare dalla nostra. A migliaia fra professori, personale accademico, studenti “sinceri democratici” si sono espressi e schierati contro il genocidio in corso in Palestina: la lettera firmata da oltre 3000 accademici, ricercatori e docenti italiani contro il Bando MAECI è emblematica da questo punto di vista.
L’ipocrisia occidentale, cioè la contraddizione fra la narrazione universalistica che l’Occidente dà di sé e la prassi reale guerrafondaia, razzista, antidemocratica (che la questione palestinese rappresenta al massimo), apre spazi enormi per parlare con soggetti sociali diversi, anche contraddittori, ma che i pezzi politicamente organizzati di borghesia occidentale “progressista” – cioè: il nefasto centrosinistra – hanno oggi più difficoltà a cooptare. Scuole e università in tal senso sono terreni privilegiati, delle pentole a pressione che stanno dando segnali di ripresa di conflitto (vedi il movimento contro l’Alternanza Scuola lavoro degli studenti medi di qualche anno fa) e in cui si può praticare la rottura con lo stato di cose presenti a partire dalle contraddizioni del nostro sistema formativo.
Saper interpretare e rappresentare il dissenso nel nostro Paese e, per quanto riguarda noi, nelle università e nelle scuole significa anche avere il coraggio di andare oltre le compatibilità e indicare i nemici in maniera chiara e netta, dallo stato di Israele (e non l’”incidente” del Governo Netanyahu) alla Nato. Le mobilitazioni degli ultimi mesi negli atenei hanno dimostrato che è possibile oltrepassare i meccanismi concertativi e della rappresentanza “classica”, conquistando spazi di democrazia reale attraverso le lotte sia all’interno delle istituzioni universitarie che nello scontro diretto con i Ministri competenti.
Senza alcuna sorpresa il governo Meloni ha infatti proseguito sulla strada degli esecutivi precedenti confermando la totale adesione ai piani guerrafondai della Nato di Stoltenberg e dell’Unione Europea a guida Von der Leyen.
L’accentuazione del carattere repressivo e reazionario delle istituzioni del nostro Paese operata da un governo di ‘fascisti dentro’ non può che confermare la necessità della nostra classe dirigente di evitare qualunque tipo di dissenso interno in una fase di estrema crisi.
Per questo motivo, è fondamentale sapere alzare lo sguardo dagli obiettivi specifici delle mobilitazioni nelle università e contribuire a saldare le lotte contro il governo Meloni. Come dimostra anche l’attuale competizione per le elezioni europee, la grande assente è una proposta politica autonoma e indipendente sia dal centro sinistra che dal centro destra, un’esigenza da cui un rinnovato movimento giovanile non può tirarsi fuori pena l’impossibilità di incidere davvero nella realtà.
Sono infine già sotto gli occhi di tutti le conseguenze e il costo delle politiche guerrafondaie del nostro Governo: la priorità dell’Occidente di tenere testa alla competizione globale sta costringendo tutti gli esecutivi a trasformare le economie di welfare in economie di guerra, con ricadute dirette e pesanti sulle condizioni di vita delle fasce popolari e sul futuro delle giovani generazioni.
Da tenere presente anche il dato strutturale della crisi ambientale e climatica: inteso negli ultimi decenni come una possibilità di ripresa e rilancio per la ristrutturazione capitalistica soprattutto per il blocco imperialista europeo, nell’attuale fase il rischio di infarto ecologico rischia di diventare un ulteriore nervo scoperto per le classi dirigenti occidentali e quindi terreno di scontro politico diretto su continuare a misurarsi.
Insomma, i paesi occidentali sono un coacervo di contraddizioni gravissime e irrisolte, accumulate negli ultimi 30 anni, che possono scoppiare non sappiamo come ma da un momento all’altro. Ciò che merita di essere attenzionato è il ruolo che può avere il contesto internazionale nell’incendiare le praterie occidentali. Qualcosa del genere successe 60 anni fa col Vietnam, quando la brutale guerra d’aggressione imperialista mossa dagli USA produceva per converso un movimento d’opposizione che fu capace di travalicare la “sola” questione della guerra, uscire dalle “sole” università, e diventare movimento d’opposizione totale. Oggi noi dobbiamo fare della Palestina il nostro Vietnam: certo, i tempi sono diversi, manca un grande blocco socialista, ma la crisi del nemico è profonda e lo slancio della Resistenza palestinese può fornirci l’occasione che ci serve.
La manifestazione nazionale del 1° giugno dovrà quindi misurarsi con la sfida di essere sintesi di tutti questi elementi attraverso il coinvolgimento dei sindacati di base fuori dall’ordine concertativo, dei movimenti per il diritto all’abitare, dei comitati in difesa dell’ambiente, delle realtà palestinesi e internazionaliste, dei collettivi e delle organizzazioni politiche antagoniste e delle realtà femminili che si stanno opponendo ai Pro vita e al governo.
Noi non possiamo farci trovare impreparati: il movimento giovanile e studentesco deve mettersi al servizio della costruzione di una più ampia opposizione alla barbarie reazionaria a partire dalla mobilitazione del 1° giugno e utilizzare l’Assemblea Nazionale del 2/3 giugno per dotarsi degli strumenti adeguati per affermarsi e avanzare all’interno delle Università in una prospettiva nazionale, radicale e di reale radicamento studentesco.
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avv.alessandro ballicu
speriamo che da questa giusta e spontanea lotta internazionale di tanti giovani seri contro il genocidio del popolo palestinesi scaturisca un nuovo 68,
al canto degli intillimani” el pueblo unido jamas serà vencido”