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L’ergastolo al contrario: illusoria rimozione del trauma? O trauma collettivo?

L’analisi delle sentenze ad opera dei familiari delle vittime è metodologia giornalistica di spicciolo successo, ma poco utile: è chiaro che un danno non risarcibile non ha nessuna pena, compresa quella di morte, che possa risarcirlo.

Il problema, semmai, è altro ed è legato al banale assioma che, abolita la pena di morte, un condannato all’ergastolo è condannato anche a vivere.

Il fine pena mai, invece, non indica al reo una potenzialità di vita possibile. Pericolosità sociale, deterrenza alla criminalità, protezione delle vittime e delle loro famiglie restano intatte anche laddove l’ergastolo venga cancellato dal nostro ordinamento e sostituito con un massimo della pena di trenta anni.

Anzi, un fine pena definito, rende meno doloroso e discrezionale l’iter carcerario del condannato agli occhi degli stessi familiari delle vittime.

Il reato, come fatto, deve essere scollegato dalla personalità del detenuto: viceversa oggi ci troviamo nella paradossale condizione di analizzare più il reo, la sua mostruosità, persino i suoi stati d’animo e le sue reti sociali, che il reato che ha commesso.

La stessa premialità nell’iter carcerario non tiene conto di una uniformità di trattamento, fino alla ingiustizia di concedere permessi solo a chi ha una casa dove auto recludersi, trasformando la povertà in aggravante o, peggio, in reato. Il substrato cattolico della nostra cultura vede in termini come perdono, pentimento e dissociazione, elementi di ambiguità assoluta.

Che significa, ad esempio, un pentimento intimo che non sia collaborativo con la giustizia? O che non possa esserlo per la unicità del reato, scollegato quindi da reti criminali da smantellare? Oppure un pentimento meramente collaborativo, atto a beneficiare dei privilegi spettanti ai pentiti?

Agli occhi dei familiari delle vittime, tanta discrezionalità non fa altro che acuire il trauma, riaprirlo ogni titolo di giornale, fino a percepirsi vittime di serie B.

Le istanze investigative, di compressione del condannato per spingerlo a collaborare, hanno pochissimo da spartire con il superamento del trauma del familiare ma, nella prassi giuridica degli ultimi decenni, stanno prendendo il sopravvento sulla duplice funzione della pena: di rieducazione del condannato e di protezione della collettività. Creando, quindi, tra gli stessi ergastolani una sorta di “classismo”: laddove ci sta il criminale inserito in contesti mafiosi o terroristici, contro quello che ha agito in solitudine e che, conseguenzialmente, non ha nessuna centralità giudiziaria.

Del resto, triturati da disinformazione e demagogia, dimentichiamo che con lo scontare la pena, ci si allontana anche dalla colpa e che, a tutti gli effetti, dobbiamo considerare anche un ergastolano come un Essere Umano capace di intraprendere nuovamente un cammino.

Soprattutto, quando nella nostra cultura, a persone colpevoli di medesimi reati abbiamo affievolito pene e, sottosotto, cancellato ogni pericolosità sociale.

Il business editoriale degli ex qualcosa, da solo, svela questo strano meccanismo di notorietà, dove tra vittime e carnefici, alla fine conta solo sfornare best seller. Ci avviciniamo rischiosamente a legittimare una torturante morte senza plotone d’esecuzione per chi, per scelta, censo o caso, non è utilizzabile per le nostre inchieste o per i nostri perdoni.

Superare un trauma, somministrando unicamente trauma, è una scorciatoia che non funziona e, tutto sommato, non funziona neanche per i familiari delle vittime. Ho conosciuto, ad esempio, parenti di vittime e la cosa che mi ha sempre stupito è che, in alcuni, il trauma veniva trasformato in forza, mentre in altri in energia negativa e paralizzante.

Non era, dunque, l’aspetto vendicativo a sanare certe ferite, piuttosto un misterioso motore della psiche capace di trasformare un dolore identico, in personalità diversissime, anche nella stessa famiglia.

Fratelli, figli di vittima innocente, che avevano sviluppato una elaborazione del trauma completamente opposta: uno ostaggio di auto commiserazione, l’altro straripante di energie positive. Ma mi è capitato anche di vedere familiari di vittime che, in una strana specularità con i propri carnefici, avevano anche essi assunto i medesimi lineamenti del reato. In questo senso la maschera del traumatizzato di professione può diventare a sua volta un ergastolo, seppur vissuto sotto la luce livida dei nostri mass media.

Una prima cosa che salta agli occhi nella liquidità del turbocapitalismo è la trasformazione dell’ergastolano da schiavo, in rifiuto umano non riciclabile. Ogni epoca, infatti, si è nutrita di forme di schiavismo, ma sempre legate ad una utilità, che sia la costruzione delle piramidi o il divertimento ludico-sessuale dei padroni.

La duplice funzione, quindi, di un ergastolano è sintetizzabile in: A) pericoloso, da chiudere, B) utile, da usare. Oggi, invece, scompare nei meandri della burocrazia ogni utilità dell’ergastolano, che non costruendo piramidi o altro, vive un’inedia assoluta, nella quale il bulldozer della detenzione distrugge la stessa appartenenza al genere Umano.

L’abuso esponenziale dell’ergastolo e delle forme restrittive, tipo il 41 bis, hanno sempre di più a che fare con logiche investigative che rieducativo-punitive. E, nella tortuosa trasformazione dello stesso corpo del reo, in una macchina metabolica priva di volontà, si nasconde il rischio della alienazione perpetua: l’impazzimento, l’allucinazione cronica che tende a diventare pena accessoria di ogni forma di ergastolo.

Ogni strumento premio (permessi, lavoro, semilibertà e libertà condizionale) sono discrezionali e possono variare per tantissimi motivi: dalla ubicazione geografica del carcerato, passando per la sensibilità del giudice, fino alla sua indole a resistere alle compressioni della vita di prigioniero.

Così come tutte queste misure si basano anche su potenzialità extragiudiziarie (non inerenti a pericolosità sociali o a reati commessi), che alcuni detenuti potrebbero non avere. Nei permessi devi indicare un luogo fisico dove auto-recluderti e non tutti hanno una casa dove poterlo fare. Idem per il lavoro, difficile da trovare oggi per chiunque, figuriamoci per chi manda un curriculum su cui ci sta scritto ERGASTOLANO. Ma, a pensarci bene, ogni gradino verso il superamento parziale della condizione di ergastolano si basa, oltre che sulla discrezionalità della burocrazia, sulla rete di rapporti del detenuto stesso. Un “fuori che aspetta” che non è scontato avere, dopo i tunnel che si sono attraversati.

Del resto, le carceri sono piene di ladri di polli che non possono usufruire di misure alternative, perché non hanno dove scontarle. Si crea così una palese e disgustosa ingiustizia tra ergastolani ricchi e poveri, tra simpatici e antipatici, tra chi ha una rete e chi non la ha.

Nasce, quindi, la figura dell’ergastolano disfunzionale, ossia di colui che avulso da sistemi criminali quanto da quelli sociali, va incontro ad una condanna eterna, anche perché il disfunzionale non ha charme investigativo o appeal sociale.

Un fine pena mai torturante: la pericolosissima china de-umanizzante, dove lo status di murato vivo è dato dalla marginalità e non dal rischio di reiterare i reati o, paradossalmente, dalla crudeltà dei medesimi. Così l’ergastolano disfunzionale non può sperare in misure premiali da collaborazione né, tantomeno, da misure premiali di rete, ossia di casa, lavoro e affetti che possono innescare l’iter di affrancamento da misure detentive severissime. Immaginate solo le funzioni burocratiche che nei gradini verso la libertà un ergastolano deve compiere: tutte queste operazioni sono vincolate al progressivo scivolamento del carcerato, in carceriere di sé stesso.

Ogni movimento nella città, ogni rapporto umano, persino l’elaborazione di un ritmo esistenziale dove il “dentro” venga traslato anche nel “fuori”, vedono nel detenuto il compito di controllore di sé stesso.

Una sovrapposizione che un disfunzionale non riuscirebbe mai a compiere del tutto, dimenticando firme, orari, e itinerari di spostamento concordati ma, bene ricordarlo a tutti, la disfunzionalità non è un reato. La disfunzionalità, come la povertà, non dovrebbero agire come aggravanti di una pena né, tantomeno, diventare la pena stessa.

L’ombra oscura dell’ergastolo, quindi, si sovrappone alla vita di chi l’ergastolo non lo ha: che sia familiare della vittima o familiare dell’ergastolano. Diventando, in modo molto poco sintetizzabile, una condanna per entrambi. Un male: che contagia anche chi è familiare dell’ergastolano con una sentenza non scritta di corresponsabilità e di precarietà grigia eterna. Ma che infetta anche il familiare della vittima, divorato dalle incertezze e dalle ambiguità delle burocrazie del potere.

Quel cono di luce che garantisce visibilità e prebende alle famiglie delle vittime eccellenti, ma che getta in un cono d’ombra e di solitudine le vittime di serie B, quelle di cui non sappiamo neanche il nome. Ma, per la proprietà virale di ogni male, l’infezione travolge anche chi l’ergastolo deve sorvegliarlo.

Avevo un amico che lavorava in carcere. Allora vivevo nel centro Italia. Lui aveva scelto il mio stesso paesino, seppur era a 100 chilometri dal penitenziario di massima sicurezza. Ma preferiva fare avanti e dietro per non correre il rischio di incontrare o essere riconosciuto ma, in un certo senso, era invisibile pure dove risiedeva.

Mi ha spiegato che il suo lavoro era particolare e che doveva stare molto attento. Nel frattempo, però, tra fatica e viaggi trascorreva tutta la giornata da solo, in una specie di reclusione esistenziale dove, gli stessi colleghi, venivano da lui percepiti come minacce. Proveniva dal Sud sia lui che la moglie e anche i legami con le famiglie di origine si erano sfilacciati: gonfi di incomprensioni e diffidenze, forse frutto del voler uscire dai suoi ambienti di mala società, attraverso un lavoro di contrasto alla stessa. Del resto, in molte marginalità, si può scegliere soltanto tra essere guardia o essere ladro. Aveva costruito una cella dove ci stava spazio solo per lui. La moglie sembrava come una sua detenuta, tanto nel ruolo di mamma/sposa, che nei rapporti interpersonali: limitati alla ora d’aria della spesa e dei discorsi con le altre mamme fuori dalla scuola.

Una volta alla guardia gli domandai del carcere. Mi rispose che era merda, che doveva fare merda e che tra colleghi e detenuti era solo merda. Me lo disse con rabbia, come a volersi giustificare di qualcosa.

Mi è venuto in mente questo amico perso di vista da decenni osservando un pensionato che transita ogni giorno tra il carcere e il cimitero di Napoli. La cosa che mi ha incuriosito è che non segue un filo logico in nessuna conversazione. Così se gli chiedi l’ora, risponde che fa caldo e che mangia solo pomodori. Una voglia di parlare compulsiva, ma seguendo quello che il suo cervello gli sta già dicendo e non quello di cui si sta parlando. È come se pretendesse d’autorità di essere ascoltato e, se ti incrocia per strada che stai conversando al telefono, tenta comunque di inserirsi nella conversazione.

Questo signore è un carceriere pensionato. Trascorre la giornata alla ricerca di ex detenuti ai quali imporre i suoi ragionamenti, senza però ascoltare i loro. Ci sono dei bar, nella mia zona, dove è facile imbattersi in comitive di anziani che spessissimo hanno trascorsi carcerari. Sarà la miseria del quartiere, oppure la stessa vicinanza a Poggioreale, ma sentendo i discorsi degli altri sembra scontato che abbiano un percorso detentivo alle spalle.

Quello che mi stupisce, però, è che l’anziano li cerca e, in qualche modo, riesce a stabilire un dialogo solo con loro. Abbiamo anche una caserma della polizia, con tanto di bar vicino, dove potrebbe tendere agguati ai suoi ex colleghi.

Ma la lingua del carcere è l’unica che ha: non ha che ex detenuti con cui parlarla. La moglie, secondo me, trova qualche escamotage per toglierselo dai piedi. I figli sono emigrati al Nord e dei nipoti ha solo fotografie. Non ha nessun amico, si percepisce nitidamente, e così sbevazza al bar insieme ai suoi ex nemici. Ore d’aria in cui, tutto sommato, parla solo con sé stesso. Il tempo, bello-brutto-anomalo, le malattie, l’abbigliamento dei giovani e il Napoli, ma frullato in frasi smozzicate che cadono a terra, come dei rumori. Si è annientato, vivendoli, gli ergastoli che doveva solo sorvegliare.

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