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Il carcere e il buio

Antonino Marano è entrato in carcere nel 1965 per aver rubato melanzane, peperoni e una moto. Ne è uscito mezzo secolo dopo: in carcere ha commesso due omicidi e due tentati omicidi.

Carcere e marginalità sociale si intersecano nella storia con la sola variante che le super alienazioni della modernità si modificano continuamente.

I territori di confine e gli stati d’animo di confine, come quelli che scaturiscono dal degrado e dalla paura, creano le condizioni ideali per delinquere: quel sottovuoto spinto che, se uno non ha attraversato, difficilmente riesce a comprendere.

Saltano i paletti etici e il panorama grigio di queste esistenze può spingere a confondere il bene dal male. I codici, persino linguistici, di queste terre dell’abbandono diventano inafferrabili se si utilizzano e sovrappongono i codici dell’abbondanza, della sicurezza e della solidità.

La fame, come una trincea opaca, quanto la dipendenza, la marginalità e il disturbo sono volano di crimine e non tanto e non solo per la volontà del singolo a delinquere, quanto per la necessità vera o presunta che l’Uomo della sofferenza sente a doverlo fare, a poterlo fare.

Si mette in conto tutto: la prigione, quanto la malattia o la morte. Oggi nella platea dei detenuti spicca la componente “tossica”, ossia coloro che hanno commesso reati di droga e la componente “malata”, ossia coloro che soffrono di disagi o disturbi psichiatrici. Detta così sembra quasi che i criminali in cella siano una esigua minoranza.

Oltre la meta di chi è rinchiuso qui dentro non ha soldi… Così, una massa di almeno 600 persone, ogni giorno deve trovare il modo per procurarsi il cibo, il sapone per lavarsi, persino la carta igienica. Poi ci sono gli insetti che ti mangiano. Due sezioni sono piene di cimici e scabbia. I topi sono ovunque”.

Riporto un brano della lettera che alcuni detenuti di Regina Coeli hanno inviato il 15 luglio a Radio Ondarossa. Carcere che con 1200 detenuti ha quasi doppiato la sua potenziale capienza. Con il caldo anche respirare diventa impossibile.

Una testimonianza forte e disperata: “Qui con noi c’è un anziano nordafricano. Ha 78 anni, cammina a fatica, gira spaesato. Dopo quasi due mesi ancora si confonde e non ricorda la sua cella”.

Lo slittamento della Istituzione carceraria verso una struttura manicomiale è caratteristico degli ultimi decenni, frutto della proliferazione delle componenti chimiche nella droga e della componente allucinatoria delle marginalità afone di questo tempo.

Passaggio stretto, attraverso il quale si cancella l’appartenenza al genere Umano, proiettando il corpo stesso del reo verso annullamenti inimmaginabili.

Caldo da sauna, freddo polare l’inverno, cibo scadente ma, oltre tutto questo, la assenza di privaci, come vivere in un tram affollato. Persino una scorreggia diventa momento collettivo che cancella la dignità umana.

Spesso si parla della sessualità dei carcerati, nel senso di assenza di sessualità tra le sbarre, immaginando atti di auto erotismo o di natura omosessuale.

In realtà, ho intervistato tanti ex detenuti su questo, l’assenza di privaci cancella in molti di loro persino il desiderio: è che il corpo, la carne del condannato, come se non gli appartenesse più, scivolando verso atarassie così totali che cancellano anche l’erotismo.

Ci si masturba quando si può, ma giusto per ricordare di avere un corpo. Persino da liberi, persino una volta fuori, alcuni ex detenuti hanno difficoltà ad avere rapporti intimi.

A lasciarsi andare. Così noi immaginiamo l’ex detenuto infoiato e affamato di sesso, mentre può capitare che impieghi dei mesi per toccare la moglie, per provare nuovamente desiderio verso di lei.

Uno scivolamento che vede nell’oblio mentale o nella camicia di forza farmacologica, gli unici rimedi per reggere a questo orrore, anche quando è passato.

La strage, con quasi 60 suicidi nei primi mesi del 2024, migliaia di gesti di autolesionismo e una popolazione carceraria che per quasi la metà è scivolata verso forme croniche di disagio o disturbo psichiatrico.

In alcune lingue una seconda chance viene definita “secondo sole”, come lasciarsi alle spalle una scena illuminata e trovarne una nuova, dopo aver attraversato un tunnel.

Ed è questa una delle spinte ai suicidi: la mancanza di entrambe le scene di luce, quelle del proprio disperato esistere e quelle di una potenzialità ad esistere ancora, una volta fuori. La morte, anzi le tante micro morti che i detenuti si auto infliggono, in soccorso all’insostenibile mal di vivere.

Inalare il gas delle bombolette che si usano per cucinare, con il solo scopo di istupidirsi, oppure ferirsi a sangue con qualche oggetto, solo per far passare il tempo sono pratiche che difficilmente il mondo di fuori può percepire come logiche.

Ho ascoltato sull’argomento un esperto, anche perché ha scontato l’ergastolo ed è per questo che evito di citarne il nome. La cosa che mi ha stupito è che, per lui e quelli della sua generazione, il carcere è stato tutt’altro: come se parlassimo di due Istituzioni diverse.

Quella furbizia che si metteva in moto portava ad inventare forme di antagonismo alla vita carceraria. Come trasformare un insignificante taglia unghie in uno specchietto che posto nello spioncino faceva intravedere l’arrivo delle guardie.

Oppure studiare come far diventare una macchinetta del caffè, una bomba. Un guardie & ladri che, in qualche modo, teneva in vita. Oggi è tutto un dolore e, da quello che mi hanno raccontato, anche un dolore che diventa solitudine alienante tra gli stessi detenuti.

Lui ha vissuto solo l’inizio di questa trasformazione della stessa identità carceraria, in struttura ospedaliera/manicomiale di contenimento ed è immune da questi scivolamenti. Ad esempio, non ha mai assunto farmaci in modo compulsivo, che siano generici o calmanti, cosa che adesso è fenomeno di massa.

Non sapeva della “Pillola di Padre Pio”, miracolosa pasticca generica che in alcune carceri viene data indistintamente per ogni tipo di male. Già il nome indica una dimensione poco medica di questo farmaco: dolori indistinti, forse indistinguibili, affidati a un rimedio miracoloso, quanto generico non solo in termini tecnici, quanto di omologazione di un mal di vivere che, invece, è elemento principe alla base della alienazione post Umana del condannato.

Una traslazione del dolore verso una indifferenziazione che, a tratti e in modi diversi, cancella la specificità del proprio disperato esistere. La vita. La standardizzazione nei quali l’individuo scompare, diventa mero ingranaggio.

Il detenuto liquido della contemporaneità, in tal senso, scompare ai nostri occhi non perché criminale, ma perché ingranaggio rotto, inutile, disfunzionale.

La stessa idea di “colpa” che scaturisce dal reato, diventa insignificante: perlopiù si punisce la povertà, la incapacità dello stato di somministrare cure adeguate alle malattie mentali, la marginalità alienante delle droghe chimiche. Si punisce la disfunzionalità, che assume essa stessa il rango di reato.

Non è tanto quindi l’intento punitivo o quello rieducativo a creare le premesse a questi suicidi, quanto il senso di inutilità che lo stesso detenuto percepisce. Il mio amico, invece, aveva una centralità specifica e tutta sua, in quanto ingranaggio “cattivo”, mela marcia.

L’intento punitivo in casi come il suo non era solo l’invio in discarica, quanto la contrapposizione della società al suo credo politico.

L’invio in discarica che viene effettuato oggi sulla massa dei diversi, dei fragili, dei dannati della terra extracomunitari, è un percorso che vede nel carcere, nella cella, solo uno dei cassonetti possibili nei quali annegare queste esistenze.

Così persino l’entità della pena, la sua stessa durata, perdono di valenza, trasformando questa parte di umanità in morti che camminano o in diversamente ergastolani.

Il vecchio ergastolano, invece, ha retto la detenzione proprio nella contrapposizione tra il dentro e il fuori, tra il trauma fatto e quello subito, tra gli amori possibili e quelli del ricordo.

Oggi le poltiglie di male che annientano i detenuti cancellano anche i ricordi: si diventa una cosa inerme, ostaggio delle cimici, delle allucinazioni, delle dipendenze che mordono il cuore, oltre che del penitenziario. Per lui il carcere è stato soprattutto resistenza, non solo alla perdita di libertà ma anche alla potenziale perdita di lucidità.

È il suo fuori, il suo Io politico giusto o sbagliato che sia, che gli ha dato la forza per reggere a ventisette anni di dentro: il fuori che aspetta, ma che per aspettare, deve pur esistere.

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