L’ottimismo è lodevole, ma la situazione internazionale lo rende altresì ingenuo e illusorio; la volontà di porre un freno al genocidio, per esempio, o di ridiscutere dello stato del mondo, si scontra con una realtà che l’intelletto può solo rappresentare negativamente, senza il minimo segno di speranza. Essere ottimisti è davvero difficile, in una situazione sempre più prossima allo scontro diretto tra potenze.
Perché le tensioni internazionali sono prossime a esplodere, e non è azzardato pensare che ci porteranno nei pressi di qualcosa di terribile: una grave crisi economica, una distruttiva guerra regionale, un caos diffuso e incontrollabile, con conseguenze nefaste per la nostra società.
Tutti i segni convergono verso un unico destino: l’aggravarsi della competizione tra la potenza declinante, gli USA, e quelle emergenti, la Cina in particolare, che non tarderà a sfociare in conflitto aperto (non è in questione il “se”, ma il “quando”). L’elezione di Trump non può che accelerare questo processo.
D’altra parte, quando l’insieme di interessi strategici di una potenza egemone si scontra con altri interessi, anch’essi materiali e geopolitici, l’esito è l’inasprirsi delle dinamiche conflittuali. In Medio Oriente come in Ucraina, non c’è luogo al mondo che si salvi da questa militarizzazione dei rapporti internazionali. Il pensiero ottimista è dunque sospetto, oggi; quando la realtà è tragica, il pensiero magico sostiene la speranza, non certo quello razionale.
Detto ciò, che fare? Non è facile rispondere. In astratto, si tratta di riprendere a fare politica organizzata, elaborando un “programma minimo” che sappia aggregare e mobilitare; ma ha ragione chi evidenzia la mancanza delle condizioni soggettive. È come voler essere parte di qualcosa che non c’è, scambiando questa volontà per azione.
Il genocidio in corso è la prova più evidente di questa condizione ai limiti del delirio: ognuno di noi ha la certezza che ciò che scrive o fa possa fermarlo, altrimenti perché scrivere o fare?
Si afferma, in ogni nostro atto, l’eco di epoche trascorse, dove l’azione poteva effettivamente influire il corso degli eventi; così ci impegniamo in qualcosa che è però illusoria e sostanzialmente inutile. Infatti, il genocidio continua, del tutto indifferente a quanto scriviamo o facciamo.
Ma se insistiamo nello scrivere e nel fare, un motivo forse ci sarà, che non sia di mera esposizione del proprio disagio umano. Potenza sovrana della volontà, mi dico; tant’è che io stesso, talvolta, abbozzo una risposta: per aprire altri spazi nell’immaginario e nel pensiero, insomma per fare un lavoro di riflessione, o di contro-informazione, persino di elaborazione culturale.
Non c’è sentimento peggiore del sentirsi inadeguato al presente, mi dico talvolta, proprio mentre scrivo o faccio.
Ma si cade sempre nella stessa trappola, nel pensiero magico che preferisce non fare i conti con i rapporti di forza e le condizioni soggettive pur di alimentare l’afflato positivo della speranza. In fondo, la frattura dell’epoca è questa: le condizioni oggettive – o l’esplodere di sempre nuove contraddizioni – richiamano la trasformazione radicale di ciò-che-è, mentre quelle soggettive si dimostrano inadeguate ad attivarla o gestirla. Da qui deriva, sostanzialmente, quella «lacerante sensazione di spaesamento» che provano in molti, e io tra questi.
Dunque, davvero: che fare? E se la risposta fosse impossibile? O meglio, se fosse arrivato il momento di rendere superflua la domanda? Si può pensare, per esempio, di essere già in azione, ossia impegnati in qualcosa che incrina il pensiero dominante, ma cambiando prospettiva: abbandonare ogni pensiero rivolto a se stessi o alla propria tribù per riportare al centro l’umanità nella sua interezza.
Compiuto questo passo, che è cognitivamente enorme, allora anche scrivere o fare contro il genocidio potrebbe diventare un tassello importante per impedire che le tante Striscia di Gaza esistenti al mondo vengano rase al suolo da potenze scellerate e criminali.
In fondo, si tratta di tornare al primitivismo della politica, a quel momento dove ognuno di noi si pone come fondamento dell’aggregazione umana e si pensa, prima di tutto, come condizione minima della ricerca di una sostanziale uguaglianza.
Questa forma di “umanitarismo”, la più primitiva che esista, potrebbe consentire di individuare chi o quali forze negano di fatto, «a colpi di parole o di leggi o di capitali o di missili, l’uguaglianza dei diritti – e la finale identità̀ umana – fra i privilegiati e i dannati della terra».
Non più il “che fare?”, dunque; ma: come posso io contribuire a questo processo anti-identitario e egualitario?
Si dirà: è il gatto che si morde la coda. Sì, indubbiamente; nelle mie frasi c’è, velato quanto si vuole, un ottimismo forse irrazionale, come se fosse ancora possibile pensare nei termini di un’azione politica generalizzata. So che è così, ma non so porre la questione in altri termini. D’altra parte, io sono solo io; ogni prospettiva individuale è una prospettiva parziale, e dunque insufficiente.
Io continuo a considerare importate ricominciare da capo, per provare a costruire le condizioni soggettive necessarie alla trasformazione di ciò-che-è. Non ho difficoltà a cogliere l’illusorietà di un tale approccio, che però non è meno illusorio del non fare nulla o della speranza che la catastrofe ci eviti o, peggio ancora, che le élite occidentali ci salvino dalla catastrofe.
Arriva un momento in cui non si può più stare fermi; anche se non si è capaci di ballare, il ritmo ti coinvolge. E poi, insomma, a stare a guardare ci si annoia.
* da Facebook
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