Il diritto internazionale è sempre stato una terra ambigua, non a caso s’è sempre portato dietro una discussione secolare sulla sua stessa esistenza.
Predica l’eguaglianza strutturale e formale degli stati e poi ne legittima in mille modi la gerarchia tra egemoni e canaglie. Mira alla repubblica mondiale contro la sovranità statale e intanto incorona lo stato sovrano come unico soggetto sulla scena, riducendo tutte le soggettività non-sovrane a “pirateria” o giù di lì.
Reclama come propria fondazione l’universalismo e si costituisce esattamente come specchio del colonialismo, e resta sempre attraversato dalla colonia come suo momento costitutivo.
Da questa tensione, però, ne è sempre venuta fuori una doppia critica.
Una è quella dei cinici: l’umanità è una menzogna, e la forza è l’unica ultima istanza, l’unica legge delle relazioni internazionali. Oggi vediamo questa critica completamente dispiegata: al ritiro dalle istituzioni sovranazionali, Trump fa seguire l’irrisione delle regola globali, neanche più il finto ossequio. Israele da anni usa a volte persino parodisticamente il diritto internazionale per legittimare l’azione criminale.
Dall’altro lato, però, c’è una critica opposta, che guarda alle tensioni del diritto internazionale per aprire una breccia nella logica strettamente “realistica” dell’efficacia e della sovranità, per liberare – vi insisteva con grande forza etica l’ultimo Derrida – il nucleo “indecostruibile” di una promessa, di una lotta per la giustizia globale oltre la logica dei blocchi, della violenza degli stati come unica e ultima ratio.
Nell’azione di Francesca Albanese, radicale nel denunciare la matrice coloniale dell’oppressione e nel decifrare la logica sistemica del genocidio, ma nello stesso tempo altrettanto radicale nel richiamare la funzione giuridica dei suoi atti, nel rivendicare il ruolo delle istituzioni sovranazionali e i loro doveri di intervento, c’è il segno di questo nucleo indecostruibile.
È lo stesso che ha animato per esempio il ricorso alla Corte di Giustizia del Sudafrica e di quel “resto” del mondo che proprio la matrice coloniale del diritto internazionale vorrebbe ridurre al silenzio, e che invece hanno scelto di dare nuova e inedita voce proprio a quelle istituzioni, pur dentro la crisi dell’ordine globale.
Nel grande sostegno popolare a Francesca Albanese in questo momento forse risuona anche questo suo essersi collocata con coraggio – da militante e, in tensione mai risolvibile, da giurista – esattamente nel punto in cui la solidarietà alla lotta palestinese e la denuncia del genocidio si saldano alla spinta internazionalistica per una giustizia globale e per nuove istituzioni transnazionali per la pace e i diritti, oltre ogni sguardo cinico sulla crisi del diritto internazionale.
* da Facebook
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