Nella sua storia più recente il Paese – da Milano a Napoli – forse non è mai stato privo come ora di conflitti sociali. Intendo conflitti agiti da soggetti in grado di avere un peso effettivo, premere sui poteri, incidere, spostare cose. Imporre una contrattazione alle forze economiche sul tipo di sviluppo di intere aree e territori.
Ora è scoppiato il caso sul tipo di sviluppo di Milano, da tempo è aperta la questione Bagnoli, altre opere strategiche per diversi territori bollono in pentola. Puoi mettere in discussione un modello di governo territoriale, e a Milano da quel che leggo immagino vi sia molto da mettere in questione.
Devi saperlo fare però con la forza di un conflitto sociale. Per contestare scelte urbanistiche e altri progetti la ricerca errata di scorciatoie nasce dalla fragilità della struttura sociale, non più tenuta insieme da un nucleo forte, come un tempo erano pezzi di classe operaia industriale.
Tramontato da tempo il modello sociale fordista la società, lo sappiamo, si è sfrangiata. Non è un fenomeno solo italiano. Le grandi deindustrializzazioni, le delocalizzazioni, hanno cambiato il volto di intere aree dell’Europa. Per non parlare degli Stati Uniti, egualmente investiti da questi fenomeni che sono poi le vere cause strutturali all’origine delle reazioni spiacevoli che oggi lì vediamo.
Le società si sfrangiano e quando una società si sfrangia il potere si clandestinizza. Vive nei flussi di danaro pubblico, vive nei grandi progetti spesso autoreferenziali, vive nelle procedure speciali (commissariamenti e quant’altro) che passano sopra le assemblee elettive e a volte perfino agli stessi esecutivi.
Senza forza di contrattazione sociale è ovvio che prevale – a Milano, a Napoli come a Roma – chi governa i flussi di spesa e la progettazione. Quando in un territorio arrivano risorse ingenti si accentua la tecnicizzazione dei processi e la loro separatezza, e se non hai forza sociale reale non incidi.
In questi giorni abbiamo letto i dati Anci sul fondi Pnrr. Il 92% dei progetti è in corso o già concluso. Al Sud quasi al 90% (87,75), più o meno lo stesso livello delle altre due grandi aree del Paese. Il comune di Napoli ha impegnato già il 79% dei 676 milioni di euro del Pnrr, quindi più di 500 milioni di euro.
Insomma si compiono scelte, si fanno investimenti, si costruisce consenso, si sviluppano territori e città. Ma in che direzione va questo sviluppo? È questo il nodo oggi all’attenzione di tanti territori. Penso alla partita in corso su Bagnoli, ed è questo il nodo che emerge dalla vicenda di Milano.
I territori si trasformano, muta la loro composizione sociale e le forze che vi operano fanno fatica a capire e interpretare queste trasformazioni. A Napoli, ad esempio, unitamente al turismo fin troppo caotico e invasivo, l’incerta ricerca di una alternativa al modello fordista ha generato in questi anni un modello spurio e incompiuto.
Convivono una occupazione povera e precaria – logistica, rider, anche aree di sviluppo manifatturiero ad alto tasso di sfruttamento del lavoro vivo, in particolare nella direttrice Napoli nord fino a paesi come Grumo Nevano e così via – con nuove figure sociali a contenuto professionale e scientifico anche molto elevato.
Eppure di tutto questo, di questa inedita e complessa composizione sociale, sappiamo poco, quasi niente. Senza intervenirvi dentro, senza provare a fare di questo nuovo lavoro una grande forza di pressione sociale, per imporre una contrattazione al capitale, non troveremo l’energia per sostenere un confronto vero sulle scelte di fondo. Né a Napoli, né a Milano, dovunque.
Si fa un gran parlare, decine e decine di convegni, non vedo però conflitti significativi, accumuli di coscienza. Non sarebbe ora di provare ad ascoltare questo nuovo lavoro, i suoi diversi soggetti? Provare a capire cosa pensano, come vedono le cose e i progetti di cui sono a volte semplice manodopera e a volte anche competenza scientifica e tecnica?
Vedere se il loro oggettivo essere proletarizzati è suscettibile di una conversione di classe. Sperando che questo nuovo lavoro non si configuri come i ceti medi. Impoveriti e quindi tecnicamente proletarizzati ma che non si identificano come tali, e anzi sono rabbiosi per lo status perduto e anche per questo si rivolgono a destra.
In conclusione si possono e anzi si devono criticare, e molto, questi modelli di città che in grandi aree metropolitane si stanno delineando. È però il conflitto, il conflitto – quando a sinistra ce lo metteremo finalmente in testa – che può davvero riaprire a tutti i livelli la contesa sui modelli da perseguire e rendere partecipate le scelte di indirizzo fondamentali.
Riorganizzare il conflitto sarebbe il compito di una sinistra, se ancora ci fosse una sinistra. Rimboccarsi le maniche e cercare i nuovi soggetti del lavoro contemporaneo intorno ai quali costruire un blocco sociale di cambiamento vero. Invece che fiancheggiare le procure nella speranza che l’avversario di turno inciampi sul terreno giudiziario finendo spesso per sostituirlo nella gestione dello stesso potere.
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