Il linguaggio precede la guerra, la prepara e la rende possibile. Oggi, come in passato, politici e giornalisti costruiscono una cornice narrativa che trasforma la possibilità di un conflitto in una certezza imminente. La minaccia attribuita alla Russia e, più in generale, alle autocrazie, non viene presentata solo come un dato geopolitico, ma come un’immagine martellante, ripetuta fino a diventare lo sfondo naturale e indiscusso del dibattito pubblico.
In questa rappresentazione, il “noi” si identifica con il blocco occidentale, descritto come l’unico baluardo di libertà e democrazia. A esso si contrappone un “loro”, un’entità autoritaria definita unicamente come barbarie e minaccia. Questa retorica, amplificata dai media, disarma il pensiero critico e normalizza l’idea che la guerra sia l’unica via percorribile.
Così, prima ancora che parlino le armi, il conflitto è già stato combattuto sul piano del linguaggio, attraverso semplificazioni, etichette e la cancellazione di ogni sfumatura. È in questa grammatica dello scontro che si pongono le vere premesse della guerra reale.
La retorica del “noi contro loro” stabilisce inoltre una gerarchia morale in cui l’Altro è ridotto a pura barbarie. Il “noi” occidentale si auto-proclama misura di ogni virtù, definendo le altre civiltà come inferiori e trasformando una presunta supremazia etica in un diritto a dominare. In questa visione, merci, mercati e persino eserciti diventano strumenti di una missione universale: tutto ciò che esiste deve piegarsi a questo strapotere, mentre la lingua stessa si fa strumento per armare gli stati e assolvere le oligarchie occidentali.
Questo meccanismo non solo limita, ma annienta l’universalità dei diritti. Il diritto internazionale, ad esempio, diventa una bilancia truccata che soppesa i crimini in base alle alleanze. Un drone russo che viola un confine è un “casus belli” che scatena l’indignazione globale; una bomba israeliana su uno Stato sovrano, invece, rischia di diventare una semplice nota a piè di pagina.
Nel primo caso si grida all’aggressione, evocando interventi militari; nel secondo, tutto viene ricondotto al “diritto alla difesa“. È il linguaggio a decidere colpa e innocenza, a trasformare i cadaveri in “danni collaterali” e le violazioni del diritto in legittima difesa. La guerra, quindi, non si combatte solo con le armi, ma con le parole che le giustificano.
«La guerra si capisce solo comprendendo il modo in cui se ne parla. La guerra si evita solo smettendo di parlarne nel modo in cui se ne parla». Questa riflessione di Karl Kraus dovrebbe essere il fondamento di ogni pensiero critico che miri realmente a scongiurare il conflitto.
Tuttavia, per essere efficace, questo approccio richiede la costruzione di un “noi” alternativo, distinto da quello delle élite che promuovono un linguaggio militarista. Un “noi” che affermi, a partire dalle parole, un principio di “comune umanità” e che aspiri alla democrazia tra i popoli, non all’egemonia di uno sull’altro.
Siamo perduti.
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