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“State tranquilli…”, disse la rana mentre bolliva

La frittata è fatta. Ora tutti i protagonisti, spalleggiati dai loro alleati, rimuginano sulle prossime mosse e lanciano bellicose minacce perché “gli altri” si fermino. E’ una danza tra soggetti che hanno bisogno di mostrarsi fortissimi, ma che sanno bene cosa rischiano. Eppure la logica di guerra, da sempre, spinge ad andare un passo oltre quel che si vorrebbe e potrebbe fare…

Stavamo camminando sul bordo del baratro da almeno tre anni, ma gli opinion maker dell’establishment – tutti o quasi, senza grandi distinzioni – ci dicevano ogni giorno di non preoccuparci. “Il nemico” c’è, è cattivissimo e crudele, ma in fondo “noi” (l’Occidente collettivo) siamo troppo forti e gli facciamo paura. Ergo, la sua faccia feroce è solo un bluff da andare a vedere, come a poker. Non c’è un vero pericolo se “agiamo subito”, perché se si aspetta troppo quel nemico può diventare molto più forte.

Non ci vuole una grande perspicacia per riconoscere in questo filo di “ragionamento” la narrazione di un guitto come Zelenskij o di un genocida come Netanyahu. Lo schema è identico, il “suggeritore” anche: l’imperialismo degli Stati Uniti.

Facile anche riconoscere nel “ragionamento” il riflesso narrativo di una condizione reale: l’Occidente neoliberista è in declino, sia sul piano economico (i suoi tassi di crescita sono ormai surclassati da oltre 20 anni, se non di più) che su quello “valoriale” (il doppio standard sistematico ha reso una barzelletta la pretesa di ergersi a “faro di civiltà”). La sua superiorità tecnologica è azzoppata, e sempre più spesso deve ricorrere alle sanzioni o dazi (o peggio, come ha mostrato per anni la vicenda Huawei) per proteggere i propri marchi dalla concorrenza. E neanche questo basta più (vedi la crisi dell’auto).

Le sue debacle anche militari, come certificato dalla fuga dall’Afghanistan, ne hanno compromesso la credibilità come “padrone del mondo”.

Ma nonostante queste ultime, la tentazione è pur sempre quella di provare a usare la propria (supposta? residua?) superiorità militare prima che quella concorrente diventi di pari livello.

Il “ragionamento” è stato fin qui particolarmente trasparente nel sostegno a Israele perché “vada avanti”, il più lontano possibile, bruciando e distruggendo in tutto il Medio Oriente. Perché tanto – secondo i tanti “Rambini” in circolazione – Tel Aviv è sostanzialmente “invulnerabile”. Anche dopo l’attacco missilistico di ieri sera in tanti si sono affannati a garantire che “tutti i missili sono stati intercettati“, anche quando le immagini mostravano il contrario (Mentana, ormai uno dei peggiori…). Persino l’Idf israeliano si è limitato a dire “molti…”

Per sostenere la giustezza o necessità di una guerra, del resto, è indispensabile poter vantare una superiorità assoluta, devastante. Specie ai propri popoli bisogna dar l’idea che forse, sì, subiremo anche noi qualche danno, ma poca roba, quasi nulla…

E poi, ci dicevano, in fondo chi abbiamo davanti? Il solo Iran, capofila del mondo mussulmano sciita (200 milioni di persone…). E Tehran non ha ancora l’arma nucleare, quindi il suo potere di “deterrenza” è ancora tutto e solo “convenzionale”. Abbaia, insomma, ma non può mordere davvero.

E’ (era) “sotto scacco”, perché se avesse reagito ai continui attacchi israeliani contro di sé (l'”uccisione mirata” di diversi scienziati e generali dei Pasdaran, il bombardamento dell’ambasciata a Damasco, l’uccisione del capo di Hamas, Haniyeh, proprio a Tehran – mentre era quasi al sicuro a Dubai – ecc), i propri alleati nell’area (Hezbollah, Assad, gli Houthi), si sarebbe suicidato finendo per scontrarsi direttamente con gli Stati Uniti.

E quindi avanti, avanti… Israele “ha diritto di difendersi” attaccando a tutto campo in qualsiasi paese, tanto siamo “noi” – tutto l’Occidente collettivo – contro un solo paese “vero” (non piccolo e disperato come il Libano o la Striscia di Gaza).

Anzi, nemmeno con tutto l’Iran, perché – come assicura addirittura Netanyhau – “presto libereremo quel popolo dai suoi dirigenti teocratici”. Magari regalandogli un nuovo Scià che riconduca quel paese all’ovile e al destino di pompa di benzina semigratuita dell’industria occidentale. Anche se quel paese ha da poco siglato un accordo di cooperazione anche militare con la Russia (non proprio come l’art. 5 della Nato, ma qualcosa dovrebbe voler dire…).

Il fondamento storico di questa narrazione era concretissimo: il mondo musulmano è scisso da 1400 anni tra sunniti e sciiti. Una divisione spesso tracimata in guerre sanguinose, crudelissime come tutte le guerre di religione che hanno scosso per secoli la “civilissima” Europa.

Il fondamento politico recente era altrettanto incontestabile: i regimi arabi sunniti (Arabia Saudita, Egitto, Giordania, ecc), definiti amichevolmente “moderati” per sottolinearne il fondamentale accomodamento con l’Occidente, sono da decenni profondamente indifferenti al destino del popolo palestinese. Attendersi da loro iniziative militari anti-israeliane, insomma, sarebbe un’illusione. Ed è persino vero anche questo.

Ma i nostri imbonitori del “popolo bue”, che debbono mantenerlo nell’ignoranza per tenere in piedi la loro narrazione, sono costretti a censurare completamente – sui fogliacci che riempiono di panzane – le notizie che mostrano come il quadro geopolitico dell’area vada cambiando, terremotando di conseguenza la “tranquillità” che si vorrebbe dipingere.

E’ forse il caso di ricordare che i palestinesi di Cisgiordania e Gaza sono per il 97% sunniti, per il rimanente cristiani i varie chiese. E a nessun commentatore di professione balza agli occhi la “stranezza” di vedere dei sunniti difesi – anche armi alla mano – quasi soltanto dagli sciiti (compresi gli Houthi dello Yemen).

Vabbé, vi direbbe il “Rambini” di turno, si tratta di un “appoggio strumentale”… Pagato con la propria vita e le proprie risorse? Strana idea della “strumentalizzazione”, che qui da noi significa di solito “guadagno facile senza rischi”.

Ma andiamo avanti facendo finta che quella obiezione abbia un senso, invece di essere solo una boutade…

Si dimentica infatti qualche dettaglio interessante, in qualche modo rivelatore. Il gruppo dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) si è un anno fa allargato a Etiopia, Emirati Arabi Uniti, Iran, Egitto e Arabia Saudita, mentre se n’è tirata fuori l’Argentina dopo l’elezione del fascista Milei (che ha riprecipitato il proprio paese nella fame e nella “dollarizzazione” dell’economia, ossia nella servitù agli Usa).

Facciamo notare che i nuovi membri sono tutti in varia misura musulmani: il paese sciita più importante (l’Iran, appunto), e poi tre paesi sunniti (il capofila Arabia Saudita, l’Egitto e gli Emirati), più un paese a maggioranza cristiana con una rilevante presenza musulmana (33,9%), in maggioranza sunnita.

Insomma: i paesi guida di entrambi i fronti islamici sono oggi inseriti in un sistema di alleanze economiche che vuole essere alternativo all’Occidente neoliberista. Restano ovviamente le profonde differenze e diffidenze, nella tradizione classica mediorientale (il “triplo gioco” è la norma, non l’eccezione), ma per chi conosce l’importanza del principio euristico “follow the money” si tratta certamente di un cambiamento epocale (dopo oltre mille anni!).

E’ finita qui? No, ovviamente. Nel prossimo vertice dei Brics, nella città russa di Kazan, dovrebbe essere formalizzato l’ingresso di Algeria, Bangladesh, Bahrein, Bolivia, Venezuela, Vietnam, Cuba, Honduras, Indonesia, Kazakistan, Kuwait, Marocco, Nigeria, Palestina, Senegal e Thailandia.

Come si vede il gruppo è – “religiosamente parlando” – piuttosto eterogeneo, segno che l’economia e l’approccio win-win (vantaggio reciproco, il contrario della politica di rapina di Usa, Fmi e Unione Europea) fanno premio sempre anche sulle più differenti fedi metafisiche.

E comunque il Bangladesh è musulmano al 90%, quasi tutti sunniti. Il Bahrein presenta una maggioranza di sciiti e una minoranza sunnita, oltre a un’importante presenza cristiana. L’Indonesia è notoriamente il più grande paese islamico del mondo (275 milioni), all’86% musulmano di fede sunnita. Così come il Senegal, il Marocco, Kuwait e Kazakhstan…

Un paio di settimane fa ha fatto domanda di ingresso anche la Turchia, musulmano-sunnita all’88% (il resto sciiti, con diverse minoranze cristiane ortodosse e non).

Vabbé”, dirà il solito opinionista decerebrato, “ma Erdogan è un dittatore…”. Vero, per i metodi di governo che usa, ma non va dimenticato che ha perso le ultime elezioni (ohibò, si vota persino lì, e si può persino perdere) proprio per lo “scarso appoggio alla causa palestinese”, anche se la Turchia è stato negli ultimi anni il paese sunnita che più ha preso iniziative pubbliche contro Israele.

Ma chiunque abbia attraversato il paese questa estate, anche solo per vacanza, non avrà potuto non notare il profluvio di bandiere palestinesi ovunque, e anche di persone che passeggiavano o facevano jogging con i suoi colori o il nome di Gaza sul petto.

Due particolari diplomaticamente rilevanti. Turchia e Arabia Saudita – i più forti alleati islamici degli Usa, nella regione – sono stati i primi ad abbandonare la plenaria dell’Onu nel momento in cui saliva al palco per declamare il suo delirio Netanyahu. La stessa Arabia Saudita, protagonista degli “Accordi Abramo” che dovevano normalizzare i rapporti tra “arabi moderati” e Tel Aviv, ha posto la nascita di uno stato palestinese come condizione del riconoscimento di Israele.

Vabbè…”, ecc. Due giorni fa Erdogan ha detto in televisione che le Nazioni Unite dovrebbero autorizzare l’uso della forza per fermare gli attacchi di Israele in Libano e a Gaza, ed ha anche chiesto l’unità dei Paesi musulmani a sostegno dei “fratelli” in questi Paesi.

L’Assemblea Generale dell’ONU dovrebbe applicare rapidamente l’autorità di raccomandare l’uso della forza, come ha fatto con la risoluzione del 1950 dell’Unione per la Pace, se il Consiglio di Sicurezza non è in grado di mostrare la volontà necessaria”.

Quella risoluzione afferma che in tutti i casi in cui il Consiglio di Sicurezza, a causa di una mancanza di accordo tra i suoi cinque membri permanenti, non agisce come necessario per il bene della sicurezza e della pace internazionale, l’Assemblea Generale può emettere raccomandazioni appropriate ai membri delle Nazioni Unite per misure collettive, compreso l’uso della forza armata quando necessario.

Oggi, difendere la Palestina e il Libano significa difendere l’umanità, la pace e la cultura della convivenza tra credenze diverse. Un pugno di sionisti radicali, accecati dal sangue e dall’odio, stanno incendiando la regione e il mondo intero. Non acconsentiremo mai a questa crudeltà e barbarie“.

Vabbé”, ecc.

I “Rambini” non ignorano però che la Turchia è un membro piuttosto importante della Nato, un pilastro del suo lato Sud (e militarmente conta più dell’Italia, se non altro per la sua maggiore abitudine alla guerra, in casa e fuori). E un membro della Nato che chiede che l’Onu autorizzi l’uso della forza contro Israele – il paese più armato dalla Nato e dagli Usa, prima e dopo la guerra in Ucraina – non è proprio una di quelle iniziative che dovrebbero suggerire “tranquillità”…

Possono non parlarne sui giornali o in tv. Ma la maggioranza del mondo sta premendo e bussando perché l’Occidente la faccia finita con i suoi merdosi doppi standard per cui un massacro di 1.000 persone vale più di un genocidio (42.000 morti per bombardamenti o armi da fuoco, finora, senza contare quelli introvabili sotto le macerie, quelli caduti per fame, sete o malattie conseguenti alla totale distruzione delle infrastrutture civili).

Vabbé, state tranquilli lo stesso…”, disse il solito opinionista medio mentre assumeva il colore della rana che cominciava a bollire ma continuava a nuotare tranquilla.

Anche non ve ne siete accorti, siete per sempre coinvolti…

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