Allora, last time: inneggiare al 7 ottobre è una operazione esecrabile, perché il 7 ottobre c’è stato un attacco da parte di Hamas che è sfociato in azioni del tutto terroristiche, con uccisione seriale di centinaia di civili e soldati.
Inciso: se avessero ucciso solo soldati, pensate che Israele non avrebbe raso al suolo Gaza? Pensate che i nostri megafoni editoriali non avrebbero parlato di terrorismo? Permettetemi di dirvi che viaggiate in un mondo di fantasia. Ma proseguiamo.
Inneggiare invece alla resistenza armata contro l’occupazione, che volenti o nolenti conduce anche gente inquadrata sotto Hamas, è un altro paio di maniche. Qualunque persona che imbracci un’arma contro le Idf oggi nella striscia di Gaza, che abbia il tesserino, la patch, il ciondolo di Hamas, del Fplp, di Fatah, del PIJ, del Dflp, o dei socialisti sloveni, è un partigiano, che appunto combatte legittimamente contro un esercito occupante.
Non importa con quale targhetta, con che veste lo faccia (tanto che non ho mai condiviso l’argomento “nazisti” – e a prescindere dalla sua consistenza – sull’Ucraina).
Noi euro-americani, abituati a certificare, bollare, abilitare, non abbiamo in realtà nessun diritto (per tacere della credibilità) di squalificare o sindacare sulla ammissibilità di questo o quell’altro rappresentante di una data lotta contro una occupazione straniera.
Non dovrebbe essere nemmeno un nostro argomento di conversazione, non ci deve riguardare, mai, a monte, perché non abbiamo un ruolo all’interno di quel contesto, perché non siamo parte dei suoi equilibri, perché non vi abbiamo una piattaforma o una base, perché non viviamo la sua quotidianità, perché non sono primariamente cazzi nostri.
Non siamo in nessun caso nella posizione di stabilire chi vada bene e chi no, chi possa combattere e chi no, chi debba andarsene e chi no, chi debba rappresentare politicamente o sul campo una resistenza che eventualmente scegliamo di sostenere da lontano, con le parole e/o la mobilitazione.
È proprio un problema di metodo. A monte, appunto. Hamas e chi ne fa parte si colloca oggi ben all’interno della social fabric palestinese, non è un fatto opinabile o connotabile, è semplicemente la realtà odierna. Esiste. Uno, dieci, venti, cento, mille, duemila di loro hanno preso parte alle azioni del 7 ottobre? Le strade sarebbero state due: arrestarli oppure ucciderli.
Si è scelto come sappiamo la seconda, e ora però, se si riduce chi è rimasto a combattere tra le fila di X, Y o Hamas – che esiste da 40 anni – a quel che è stato organizzato dai Sinwar e dai Deif il 7 ottobre 2023, non solo si torna da capo a dodici ma spiegatemi anche come non ridurreste Israele a quello che succede da due anni, anche solo questi unici due anni, e quindi chiedere la morte, la resa, l’esilio e tutto il resto a tutto il governo israeliano. O a tutti i sostenitori dell’assedio su Gaza.
A me ipocrisia, paternalismo e frasi fatte danno ai nervi. Io sostengo una causa, la sua validità e la sua legittimità, nei suoi principi e nella sua logicità.
Non sostengo i miei amici, quelli che presumo essere più simili a me, le affinità elettive non mi interessano su queste cose, vanno bene per andare a cena ma qui non si deve fare comunella: si dovrebbe trasformare, produrre cambiamento, o meglio contribuire a facilitarlo, da lontano, con quel che si può.
Se i miei amici perseguono una causa illegittima io mando a fare in culo i miei amici. Se chi invece non mi piace o anche un mio nemico sostiene una causa legittima, oppure la sostiene con azioni criminali, sarei un idiota a mandare a fanculo quella causa: che non smette di esser legittima perché è sostenuta da chi non mi piace, o da chi compie azioni criminali.
Hamas ci assolve da tutti i nostri mali, ci fa sentire giusti e pensosi, permette ad alcuni di dire cose anche molto belle, però qui il punto è che nei fatti ci si ritrova facilmente a fare cose bizzarre come chieder la resa, l’esilio o la repentina scomparsa a chi, sul proprio territorio, dopo 730 giorni di inferno in terra, e a prescindere da cosa pensi su qualunque aspetto della vita sociale, sta combattendo scalzo con rpg artigianali, ordigni improvvisati e Ak47 contro i carri armati, nascondendosi tra macerie e tunnel per sfuggire a bombardamenti aerei e bombe da qualche tonnellata.
È proprio una cosa poco decorosa, oltre che poco realistica.
* dal suo blog su Substack
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Giorgio Collo
condivido in principio, pero restano buchi enormi.
Quello che dici si potrebbe perfectamente aplicarbile ai Talibani : determinati, coriacei, scalzi e male armati hanno messo in fuga prima i sovietici o poi gli americani cha sono letteralmente scappati in pochi giorni lasciando dietro tonnellate di armamenti.
Non possiamo emettere giudizi morali da fuori, contro chi combatte un invasore. Gusto, peró senza una opinione nessuno si mobilita. E come ce la formiamo questa opinione? A chi diamo ascolto?
Non sono domande retoriche. Mi sentó diviso. La lotta dei palestinesi e stata la causa politica che ha attraversato tutta la mia vita, la piu antica,la piú sanguinante e tragica la piú simbólica.